La bottega
Di Flavio Prestifilippo
Quella mattina la festa era iniziata molto presto. Ascoltavo le grida festose, gli schiamazzi dei bimbi e le grida degli ambulanti. Ma non rimasi fermo lì, lentamente fui portato in una via secondaria, dove c’era un cortile col pavimento di pietre bianche.
La grande porta era spalancata, dentro era tutto in penombra, fuori invece c’erano piccole e panciute botti di legno chiaro, con tanto di rubinetto invitante, quasi a promettere libagioni all’aperto proprio in quel giorno.
Appese al muro all’esterno c’erano varie falci nuove e lucenti, quelle che un tempo usavano i contadini per lavorare nei campi. Alcune vanghe erano lì ammiccanti, col loro sorriso sfavillante carico di antiche promesse: sole, sudore, fatica, sere fatte di nulla, ma anche rarefatti paesaggi da ammirare sotto un albero con un po’ di pane in mano. Qualcuno mi spinse dentro e io docile ubbidii.
Mi colpì subito un fortissimo odore di colla da falegname, mischiato con quello di cordame che intravidi su una piccola parete. Corde di tutti i tipi, nuove , appena costituite forse. Al centro della stanza un grande bancone da lavoro con miriadi di scatolette: chiodi di tutte le fogge, ma anche viti bulloni, martelli e mazze erano appesi ai lati.
Quello che troneggiava come un piccolo re della bottega era però lui, il piccone, minaccioso lineare come solo i grandi riescono ad essere. Accanto a lui gli faceva da contraltare l’ascia. Ma non era sola, le erano accanto come paggi seghe varie di tutte le forme e grandezze, fino a quella regina, usata per tagliare i tronchi, posta accanto al piccone.
Poi c’erano i soldati, svariati tipi di martelletti , piccoli picconi, scalpelli, e mazzuoli, tutti pronti a scattare all’unisono al richiamo dei sovrani. In un angolo messa da parte come antenata antica, vidi una carriola lucente, pesante, quasi lacerante nella sua promessa di stanchezza. Alcuni sacchi di contenuto vario stavano come a contorno del tavolo centrale. Intravidi in essi tante sementi, ma anche una polvere grigia, cemento mi fu detto.
In un angolo come damigelle c’erano le pale cosiddette, che da una parte all’altra facevano da piccolo corteo ad una scaletta, da cui all’improvviso scese un uomo. Era curvo, alto, magro, con un grembiule grigiastro, la barba bianca corta e fitta. Parlava con voce roca ma intonata all’ambiente di duro lavoro che lo circondava. Sorrideva guardandomi. Poi si affacciò verso l’interno urlando un nome.
Dopo un poco venne fuori, come da uno specchio magico, una donna con un grande grembiule a fiori. Sotto aveva una gonna rosso sangue. Era paffuta, con la pelle bianchissima e un sorriso invitante:
“ Venite, il pranzo è pronto”. Richiamo inutile, perché dalla profondità della scala provenivano miscugli di odori su cui prevaleva quello di passata di pomodoro . “Venite,”, ripeté, “ è pronto”. Poi si rivolse nella mia direzione, guardando però più in alto:
“ Dobbiamo parlare, lo sai.“ Una mano forte mi tirò, e cominciai a salire gli scalini.
Salimmo tutti come in piccola processione, attraversando quella porta poco in vista. Alla fine della scaletta c’era un lungo corridoio, col pavimento in strani mattoni giallastri puntinati di nero. Sulla tavola apparecchiata, più invitante che mai, c’era l’immancabile bottiglia di vino rosso. Ci sedemmo tutti, a me fu assegnato un posto vicino alle mie cugine, due bambine grassottelle che ridevano guardandomi.
Fui servito per primo. Il pranzo fu allegro, mi fecero gustare anche del vino seppur annacquato. Infine cannoli di ricotta nostrana e caffè per i grandi. Le bambine mi invitarono subito ad andare a giocare con loro, anzi la più intraprendente mi trascinava tirandomi per la giacchetta nuova che avevo indossato quel giorno, festa del Santo Patrono. Il padrone di casa la bloccò: “deve restare con noi”. Mio padre e il cugino iniziarono così a parlare , guardandomi ogni tanto per accertarsi che seguissi tutto.
“La frana è stata tremenda, ha distrutto una parte della casa, siamo vivi per miracolo. Era una domenica di pioggia, ma noi per fortuna eravamo tutti nella parte più esterna del palazzo , altrimenti ci avrebbe travolti” . Era stato mio padre a parlare. Vidi chiaramente che un brivido lo percorse , poi si consolò con un altro sorso di vino. “ Si è vero! “ intervenni io, “avevo chiesto infatti a mia sorella di andare a giocare proprio dove è crollato tutto. Ma lei ha detto no, e dopo qualche minuto un grande boato ha fatto tremare la casa!”
I due cugini si guardarono sospirando e scuotendo la testa “Lo so” Disse lo zio Ignazio. “Ora verrete a stare con noi per il tempo necessario per i lavori. Poi ci vorrà il permesso di agibilità. Spero che tu Saverio ti possa trovare bene qui”. “ La mamma e mia sorella verranno ?” Chiesi io con un filo di voce. “Loro staranno da tua nonna, non potevamo ospitarvi tutti. Ma le vedrai spesso. Però a scuola ci andrai sempre e i compiti dovrai farli, mi raccomando. Certo farai nuove amicizie, qui attorno ci sono tanti monelli: dovrai stare attento. “ Così mi disse lo zio accarezzandomi i capelli.
Un brivido interiore frammisto a curiosità si stava impossessando di me. Dopo pochi giorni feci conoscenza coi miei nuovi compagni di gioco. Mi chiesero subito come mi chiamassi e che giochi sapessi fare. Feci il mio elenco: “ciappedde, so andare in bici” e, più incerto, “gioco al calcio”. Loro risero scambiandosi occhiate d’intesa. Per impressionarli aggiunsi: “So usare la fionda e sparo col fucile!”
“Quello vero?”. Vedendo che esitavo se ne andarono correndo e gridando. Nella settimane successive li cercai dovunque, senza trovarli.. Avranno un posto segreto dove si riuniscono, pensai subito. I giorni passavano, i miei giochi erano sempre solitari, tranne quando venivano mia madre e mia sorella. Se ero libero da impegni stavo in bottega con lo zio e ne seguivo i lavori di falegnameria, oppure lo ascoltavo parlare coi clienti venuti a fare acquisti o a commissionargli qualche opera. La strada per andare a scuola era molto più lunga di prima , dovevo quindi alzarmi presto, tanto che un giorno mi capitò di osservare il nostro vicino che andava in campagna a dorso di mulo.
Aveva dei grandi baffoni e un’imponente figura. Era anziano ma continuava imperterrito a svegliarsi all’alba per andare a controllare le coltivazioni nelle sue terre. Questa figura mi affascinò subito, tanto che cercavo di scrutarlo sempre più spesso, a costo di levatacce. Lui infine se ne accorse, ma non disse nulla, almeno per il momento. Un giorno venne a casa nostra cercando di mio padre, per fargli una proposta: “ Vorrei portare suo figlio una domenica pomeriggio nella mia campagna. “ “A dorso di mulo?” Chiese pronto mio papà, un poco preoccupato .
“No, che dice” rispose il vecchio facendosi una grossa risata. “ Tiro fuori il carretto naturalmente, e ci sarà anche il cane. “ Ebbi così il consenso. Iniziò una lunga attesa, prima che giungesse quella domenica. Nel frattempo cominciai a fare tutta una serie di domande a mio zio Ignazio, per saperne di più sul conto del vicino.
“E’ un vedevo” mi rispose “si chiama Gaetano.” Ha perso la moglie anni fa. Ha due figli, la primogenita è sposata ma abita in un altro paese, la vede infatti solo nelle grandi feste. Il maschio è militare e ne avrà ancora per due anni. In gioventù è stato sottufficiale dei carabinieri” . Si fermò un attimo come a chiedere il permesso a mio padre che gli sorrise in risposta. “E’ stato in carcere per tre mesi”. Mi guardò divertito godendosi il mio legittimo stupore. “Un carabiniere?” Chiesi io.
” Si caro, fu recluso per tre mesi. Il motivo è semplice: un giorno, all’epoca del fascismo, insultò nella pubblica piazza nientemeno che Benito Mussolini. Ancora se ne vanta, e a ragione secondo me. Prima che lo radiassero dall’arma si dimise lui sbattendo la porta. “ “Un bel personaggio e un carattere bellicoso “ aggiunse mio padre con gli occhi che gli brillavano Mi raccomandarono di non chiedergli nulla in merito a quell’antico episodio. Promisi che non l’avrei mai fatto.
Ma una muta domanda mi restò in mente per parecchio tempo: perché il vecchio si era comportato così? La risposta mi sarebbe arrivata spontaneamente solo in seguito. La domenica designata mi ritrovai sul carretto nuovo con le immancabili sponde tutte dipinte. Prima della partenza mio zio volle farmi una foto, che poi avrei rinvenuto molto tempo dopo in occasione di un trasloco.
La Primavera era già inoltrata, durante il viaggio Gaetano non parlava. Anche il cane era silenzioso e ci trotterellava dietro. Dopo un po’ il vecchio iniziò a cantare una nenia a bassa voce: le parole erano incomprensibili, ma il tepore di un maggio pietoso, interrotto solo dagli zoccoli del mulo e dal cigolare delle ruote, mi regalarono una contentezza e una pace non più ritrovata finora. Le ore passarono, poi quando il contadino ebbe finito il suo lavoro, riprendemmo subito la strada del ritorno. Stavolta cantai anch’io, imitando la lenta melodia ritmata dai rumori del carro.
La scuola a giugno infine chiuse i battenti. Si ripresentò così il problema di scovare i miei compagni di gioco. Per fortuna non ce ne fu bisogno: il caso me li fece incontrare. Stavolta mi accolsero meglio, forse, pensai, l’amicizia col vecchio contadino era servita a rivalutarmi ai loro occhi.
Non mancavano certo i momenti in cui rimanevo solo a bighellonare, esplorando tutti gli anfratti di quel quartiere a me sconosciuto. Giocavo pure col cane del vicino, dopo che ebbi superato la mia innata paura.
Una sera accadde un fatto strano, il capo della piccola banda si avvicinò a me con aria cordiale. “Ti piacciono le calamite?” mi chiese con aria invitante. La voglia di possederne una prese il sopravvento sulla diffidenza istintiva che mi facevano quei ragazzini.
“Si” risposi senza pensarci . “Bene allora” Fece lui. Conosciamo un posto dove ne potrai trovare tante, se verrai con noi domani sera. Non devi parlarne con nessuno mi raccomando , altrimenti la paghi ”concluse con voce minacciosa. Ci demmo un appuntamento per l’indomani sera. Quella notte per l’inquietudine dormii male.
Nella penombra del tramonto ci ritrovammo l’indomani tutti attorno al capo, di fronte a noi c’era una vecchia bottega, protetta da una porta sgangherata in lamiera e da una vecchia serratura. Mi chiesi come saremmo entrati . Sopra la porta vidi poi una fessura dove a stento sarei passato io, non senza difficoltà. Tutti mi guardarono: ero infatti il più piccolo e il più magro. Ecco perché mi avevano portato con me, pensai, ma ormai non avevo scampo. Mi issarono senza problemi, e il resto lo feci io con relativa facilità. Aprii la porta mentre loro spingevano dall’esterno, quindi entrarono tutti.
In pochi minuti facemmo man bassa di tutto la ferraglia trasportabile. Chiudemmo alla meglio, e a fatica per via del nostro carico, ci recammo in un’altra bottega, un fabbro venni a sapere dopo. Costui pesò tutto quanto con pignoleria, poi lo vidi parlottare con uno di noi. Scappammo poi di corsa, prima di separarci però il capo mi fermò: non potevo proseguire con loro. Mi mise in mano qualche moneta raccomandandomi il silenzio, poi mi salutò. Non l’avrei mai più rivisto.
Dopo qualche giorno i miei genitori anticiparono il ritorno a casa nostra, pur essendo ancora i lavori non del tutto ultimati. Da alcuni loro commenti ascoltati di nascosto, intuii ciò che avevo fatto in realtà.
Ricordo ancora oggi quella bottega e i suo odori particolari, insieme a quella porta nascosta, da cui un giorno poi sono uscito, abbandonando per sempre quel mondo semplice e antico.
L’immagine di copertina è La Vucciria di Renato Guttuso