“Non mi stupisco più. Il caso, per quanto pigro, è il migliore amico del collezionista. Forse è la mia precedente esperienza di entomologo a rendermi sempre pronto per qualsiasi cosa ossa spuntar fuori, come dal nulla quando si ha la pazienza di attendere Non all’infinito, ma abbastanza a lungo”, così leggiamo a pagina 153 di questo Mamma è matta, papà è ubriaco di Fredrik Sjoberg, pubblicato da Iperborea,
Il caso è, nella fattispecie, il ritrovamento di una scatola nella casa svedese di Göteborg della famiglia Adler Arosenius-Dich, imparentata per parte di madre con il pittore danese Anton Dich (1889-1935) di una fotografia che lo ritrae nel 1912 (ca), scattata verosimilmente da Nils Bonde Adler.
L’origine del titolo del libro è in una frase pronunciata dalla figlia di Eva e di Anton, Lillan (forse nel 1921), su un treno che portava la sua famiglia da Mentone a Parigi a proposito dei suoi genitori. Quella frase non sarebbe stata mai più dimenticata da Lillan perché pronunciata davanti ad un ufficiale francese che pur non potendo comprendere la lingua per filo e per segno, aveva intuito che la ragazza stava dicendo qualche cosa in svedese: Eva Adler (la madre matta) sposata e vedova di Ivar Arosenius (1908), e Anton Dich, suo secondo marito (1912), pittore ed alcolizzato.
Sjoberg segue vita e vicissitudini di Anton Dich e di sua moglie, una Adler e vedova del pittore Arosenius, dalla fine del XIX secolo almeno a tutto il primo ventennio ed oltre del XXesimo secolo, in Europa. Questo lo porta a stabilire, (sempre con il governo del caso che regge e ordina la narrazione), legami fra la famiglia Adler, Anton Dich e il mondo della cultura centro e nord-europea. Dunque, addirittura con Adolf Hitler che aveva fatto un ritratto alla nonna di Hanna, Lisa Adler.
Dice la nipote: “Ce n’è un altro [un disegno] quasi altrettanto bello, fatto da un compagno di corso che quel giorno aveva piazzato il cavalletto accanto a mia nonna”. L’autore del disegno era appunto Adolf Hitler che frequentava con la nonna di Hanna, Lisa Adler sorella di Eva, la scuola d’arte a Vienna (o forse Monaco) all’inizio del secolo. Il padre di Hanna però era un ebreo “un po’ più eccentrico della media che veniva da Leopoli, in Ucraina, città che all’epoca si chiamava Lemberg e si trovava in Galizia, che a sua volta apparteneva all’impero austroungarico”.
Da queste citazioni si comprende come il libro sia intessuto da una trama di relazioni che ne costituisce l’essenza. Questo soprattutto a causa della famiglia Adler, ma certo anche di Anton Dich che costituisce il centro della ricerca di Sjoberg: “Adesso racconterò tutto quel che è noto di Anton Dich, nato a Copenhagen nel 1889 e scomparso a Bordighera quarantacinque anni dopo, ma siccome è un po’ come se il suo cavalletto, disposto di fronte a Hanna e Lillan a Mentone, lo nascondesse, devo prima fare una deviazione passando per le madri delle ragazze. Non che debba, a dire il vero. Qua vige totale libertà. E’ solo che mi diverte”.
Qui comprendiamo un’altra caratteristica di questo studio: la levità dello stile, l’ironia e la leggerezza nel trattare una materia altrimenti molto grave e direi quasi pesante, che l’autore domina perfettamente, pur immergendosi nella complessa genealogia che caratterizza le famiglie Adler e Dich e ci porta a stabilire legami con Arosenius (1878-1908), grande pittore svedese attivo soprattutto al principio del XXesimo secolo, morto giovane all’età di 30 anni, a causa della sua malattia, l’emofilia, Bertolt Brecht, Blaise Cendrars, Amedeo Modigliani, Derain. Dich infatti, aveva sposato Eva Adler nel 1912.
Di Eva scrive Sjoberg: “Eva è la chiave. Me ne sono accorto subito. O almeno così credevo. Una chiave perduta, purtroppo. Se c’è qualcuno in questa storia che avrei voluto invitare a bere qualcosa una sera d’estate, in un posto davanti al mare dove chiacchierare a quattr’occhi, quel qualcuno è lei”. Sjoberg introduce una apparente divagazione sul legno di deriva a proposito di Eva, per spiegare ciò in cui consiste l’eccentricità in ambito scientifico e umano: “L’eccentrico è un tronco in mare che per anni viene trascinato dalle correnti per poi incagliarsi e finire arenato su una spiaggia, e se uso quest’immagine per descriverlo esiste una spiegazione per metà scientifica Solo per metà, perché anch’io ero sempre sul punto di essere trascinato via”.
Da questi esempi si comprende come l’autore divaghi spesso dal centro della narrazione per mostrare aspetti apparentemente personali, scientifici, periferici o collaterali, che sono però significativi come nel caso di Derain, Matisse e Modigliani. Segue certamente i luoghi che la famiglia Dich-Adler attraversò e le persone con cui entrò in contatto.
Una questione però si pone al lettore: come mai Anton Dich non divenne famoso come Modigliani, che pure non era da meno quanto all’uso e all’abuso dell’alcol, o come il pittore svedese Arosenius, che era anche lui alcolizzato? Dipende principalmente dalla produzione degli altri due pittori, incomparabilmente più grande e più numerosa quelle di Modigliani e di Arosenius. Quest’ultimo, a differenza di Dich, aveva maggiore autostima ed era meno critico di Dich della propria opera. Arosenius era pur sempre sposato con Eva Adler, come pure lo fu Dich, ma mentre Arosenius anche con l’aiuto economico di Eva, rimase convinto del suo talento e divenne geniale, Dich non ebbe la medesima stima del suo talento e non fu riconosciuto né in vita né dopo la sua morte. Di qui la necessità di restituirgli nella storia dell’arte il posto che gli è dovuto.
Un libro dunque interessante, per lo stile lieve ed ironico, fin dove è possibile, perché fa luce su un aspetto altrimenti in ombra e dimenticato, della storia dell’arte europea del XXesimo secolo.
Letteratura
Iperborea
2020
206 p., ill., brossura