Nato a Como, di origine salentina, Alessandro Vergari vive da diversi anni a Bari dopo essersi laureato in Filosofia all'Università Statale di Milano, con una tesi sul rapporto tra guerra e giustizia. Una geografia complicata? Forse. Alessandro scrive recensioni e articoli su diversi blog. Cinema, letteratura, musica e cucina (in qualità di consumatore finale) le sue principali passioni. Ama il sole e il mare. Sulla politica attualmente non si pronuncia. "Ho dato abbastanza", queste le sue dichiarazioni in materia.

Un’eredità troppo pesante. Orrori di famiglia nel romanzo di Vigdis Hjorth.

Di Alessandro Vergari

Eredità di Vigdis Hjorth è un romanzo che colpisce al cuore l’ipocrisia di cui si nutrono le relazioni familiari. Ogni porta ne apre un’altra, ogni parola spinge il lettore oltre, verso l’indicibile verità.

Bergljot, scrittrice di mezza età, una mattina è raggiunta dalla notizia del tentativo di suicidio dell’anziana madre. È sua sorella Astrid a darle per telefono la notizia. La madre Inga, in nottata, ha ingerito un’overdose di pillole. Ricoverata in ospedale, è stata dichiarata fuori pericolo. Un evento straziante, certamente non il primo occorso in famiglia. Alla base del gesto vi sarebbe un litigio occorso tra Bård, il fratello di Bergljot, e i genitori. Perché discutere aspramente con una madre e un padre ormai ottantenni? Quale può essere stato l’oggetto del dissidio?

Bergljot e Bård hanno altre due sorelle, Astrid appunto, e Åsa. La telefonata soffia su un castello di carte già crollato. Bård ha saputo che le case sul promontorio di Hvaler (guardate le foto su Google, è un luogo incantevole) sono state riservate, per testamento, ad Astrid e ad Åsa. Loro due, a differenza di Bård e Bergljot, non hanno mai tagliato i ponti con il padre e con la madre. Bård è un egoista? Cosa c’è di sbagliato se due amorevoli e affidabili figlie, peraltro frequentatrici assidue delle due case al centro della disputa, alla fine hanno ricevuto una porzione aggiuntiva di eredità? Oppure c’è qualcosa che non sappiamo? L’unico fratello maschio non accetta l’esclusione e ingaggia una battaglia attraverso esplicite rimostranze e lettere piccate.

Vigdis Hjorth (Foto da www.bt.no)

Aveva scritto ad Astrid e Åsa, sottoponendo loro le stesse argomentazioni, e gli avevano risposto che i nostri genitori potevano disporre a proprio piacimento dei loro averi. Nell’ultima e-mail Bård aveva sottolineato che Hvaler era il luogo a cui associava il maggior numero di ricordi felici. Perché i quattro fratelli non potevano essere proprietari di mezza casa a testa?

A Bergljot, anch’essa estromessa dalla ripartizione, delle case al mare non importa nulla. I suoi rapporti con i genitori sono azzerati. Volutamente azzerati. Åsa, poi, la detesta fin dai tempi dell’infanzia. Con Bård, il fratello forse più affine, le occasioni di contatto sono sporadiche e molto dilatate negli anni. Bergljot sente solo Astrid, una fragile mediazione ammantata di collaborazione. Astrid si occupa per professione di diritti umani e redige i suoi articoli con l’aiuto della sorella.

Non stupisce che Eredità abbia vinto il Norwegian Booksellers’ Prize e il Norwegian Critics Prize for Literature – i due principali riconoscimenti letterari norvegesi. Il testo è vivo, lucido, tagliente. Pensieri e ricordi sorgono dall’ombra come fantasmi. Bergljot richiama davanti a sé l’ospite inquietante, con naturali gesti da levatrice. Parole si ripetono e consolidano la sua testimonianza di donna spezzata, di figlia rinnegata, di moglie irrequieta.

La scrittura di Vigdis Hjorth si radica nella tradizione drammaturgica nordeuropea. In più occasioni la narratrice Bergljot cita, e si accosta, a Henrik Ibsen, in particolare a due opere teatrali molto celebri, Casa di Bambola e Peer Gynt. L’autrice guarda anche a Festen di Thomas Vinterberg, il primo film della corrente Dogma 95. Nel Peer Gynt di Ibsen, Solveig lascia Peer, lo abbandona abbracciando la modernità di Nora, la moglie protagonista di Casa di Bambola affrancatasi dal peso dell’autorità tradizionale, una decisione che Bergljot mette a confronto con la pavidità di sua madre.

Il nevrotico stato di dipendenza di Inga dal marito/padre/uomo d’affari è intrecciato a quel termine impossibile da pronunciare: insesto, sì, con la s, un errore lessicale che sottende una rimozione del trauma dall’orizzonte degli eventi. Nella pellicola di Thomas Vinterberg, la rivelazione sconvolgente esplode in un freddo contesto alto-borghese, nel corso del festeggiamento del sessantesimo compleanno del patriarca Helge, industriale dell’acciaio. Anche in Eredità i momenti topici di ricongiungimento familiare ospitati nella magione di Bråteveien, festività natalizie e ricorrenze, calamitano il disagio, nelle forme di un’assenza ormai metabolizzata. Sono occasioni monche della presenza di Bergljot e Bård. Il clan, chiuso a riccio attorno a una percezione di sé assolutoria, evita di affrontare le ragioni del distacco e seppellisce le atrocità sotto coltri di ordinario silenzio.

Che nessuna di voi mi abbia mai chiesto della mia storia è qualcosa che ho vissuto e vivo come un grande dolore.

Quante volte accadde? Fino a dove si spinse l’irreprensibile padre? Nessuno aveva subodorato nulla, tra le pareti della vecchia residenza di Skaus vei? Un caso, un accidente: essere la sorella più grande, la più esposta alle trappole in cui può cadere, suo malgrado, l’innocenza. È lo scandalo. La radice di skándalon, in greco, rimanda all’insidia posta sul cammino di un animale, alla possibilità della cattura. La vittima sacrificale salva le altre, nate casualmente dopo, le piccole scampate all’orco, le felici con i soldi in tasca e le estati al mare, le fortunate con la testa sotto la sabbia, le piccole donne imbevute di amore filiale, incapaci allearsi col dubbio, di trasformare il giudizio, di scegliere la dignità morale. Sull’olocausto di famiglia cala l’oblio.

Mio padre era così felice di abitare in Bråteveien. Mio padre era così felice di trasferirsi da Skaus vei in Bråteveien. Questo valeva anche per mia madre. Una volta dichiarò di non essersi mai pentita di avere traslocato, non aveva sentito la mancanza di Skaus vei neanche per un attimo. Nulla di strano. Chi vorrebbe vivere nel luogo del crimine?

Esse sapevano e rinnegavano, esse sapevano e minimizzavano, esse sapevano e guardavano altrove. Eredità è un romanzo sull’incomunicabilità tra il sé ferito e la resistenza del prossimo, sulla memoria abolita, sfasciata, non condivisa. Confessioni a mezza voce soffiate nelle orecchie di Astrid, fiammelle di verità accese nel buio dei limitati incontri, i comportamenti ossessivi di Inga nei confronti dell’adolescente Bergljot, evidenti manifestazioni di un’apprensione colpevole: tutto inutile, tutto negato, tutto rimosso. La reticenza vince e il clan si produce in una subdola manovra di aggiramento, nel legare a sé i figli di Bergljot e Bård, includendoli, quantomeno, nella celebrazione delle occasioni ufficiali. Può una madre negare ai figli il contatto con i nonni a Natale?

Vigdis Hjorth affronta il tema con straordinaria sensibilità. L’incesto, abominio morale che trascende l’intelletto e offende il sentimento, è un soggetto ostico alle istanze di rappresentazione estetica o letteraria. Inoltre, le interpretazioni, ad esempio psicoanalitiche, che tentino di comprendere i moventi reconditi di efferatezze simili, scontano un’inevitabile insufficienza. L’incesto, offesa incalcolabile alla persona, eccede qualunque regolarità. L’incesto è un vuoto senza sponde. Bergljot emerge dalla guerra domestica, forte di una dignità morale, che si erge al di sopra dell’orrore, analogamente all’attitudine dell’individuo che avverte l’infinitamente esteso nella Critica del Giudizio kantiana, condizione del sublime. Bergljot, tra le macerie, protesta la sua libertà inafferrabile. Meditate, sorelle, che questo è stato e scolpitelo nel vostro cuore.

Uno stupro incestuoso non è solo un’azione inumana, un attentato definitivo al futuro ma è anche la fondazione di un nuovo ordine inappellabile, un ereignis che traccia un solco tra il prima e il dopo. Subire una violenza a cinque anni costituisce un devastante punto di non ritorno sia per la vittima che per il carnefice, tanto che Bergljot talvolta denota il padre con l’aggettivo “povero”, in quanto anch’esso colpito da una tragedia che sovverte natura e logica. È Bergljot a dire “povero” al padre, mentre lei, al contrario, riceve insulti che mirano a stigmatizzare la sua presunta tendenza a esagerare, a mentire, a mistificare. Quando la madre chiede a Bergljot perché non sia mai andata a denunciare il fatto alla polizia, la figlia intuisce la patetica strategia di difesa. Senza denuncia non vi è verità? Come può Bergljot attestare un inferno la cui sussistenza è negata in partenza, ab origine? I familiari piantano le tende in un’oasi di falso candore, una terra di mezzo spacciata per neutrale.

La riconciliazione, come dovrebbe sapere mia sorella Astrid che lavora nel campo dei diritti umani, avviene soltanto quando tutte le parti coinvolte in un conflitto hanno la possibilità di esporre la propria storia.

Eredità muove dal privato per sviluppare un discorso pubblico di stringente attualità. Cosa significa nel concreto (hegelianamente concreto, essere nel qui-e-ora storico) prendere posizione? Che senso ha vivere di alti principi ideali se poi, all’atto pratico, si rifiuta il contatto empatico con il soccombente? Astrid è il personaggio che esemplifica la cattiva coscienza di chi filtra la realtà secondo schemi astratti. Astrid, sebbene abbia lavorato nei disastrati Balcani, sembra incapace di declinare nella sfera familiare le conoscenze acquisite sul campo. Bergljot arriva ad apprezzare maggiormente Åsa, rivale che incarna la fierezza dell’hostis dichiarato.

Secondo Astrid, professionista delle pulizie etniche e dei fili spinati, il fratello e la sorella “dissidenti” dovrebbero mettersi tutto alle spalle, abbandonare le rispettive trincee, come se il dolore fosse un ostacolo sorto dal nulla. La sua impostazione in merito alle accuse sollevate da Bergljot al padre si può riassumere così: Non mi potevo schierare apertamente, a causa della mancanza di prove inconfutabili. Eppure, sappiamo che le guerre del Ventunesimo secolo, paradigmatico il caso Iraq, sono state scatenate sulla base di prove “inconfutabili”, la cosiddetta “pistola fumante”, salvo poi, a disastro compiuto, verificarne l’insussistenza. Viceversa, le burocrazie delle nazioni “civili” spesso frenano sulla concessione del diritto d’asilo, a meno che la prova esibita non raggiunga un livello di crudeltà tale da giustificare sine dubio la fuga del soggetto dalla nazione di origine: paradossalmente, la morte del richiedente costituirebbe la certificazione “inconfutabile” per ottenere protezione da uno Stato estero. Astrid evoca la prova impossibile quando sa di avere sotto gli occhi la miglior prova possibile, l’esilio forzato di Bergljot.

Vigdis Hjorth individua nella figura di Bo Schjerven l’antitesi di Astrid. Bo è un amico giornalista di Bergljot che, negli anni della guerra in Jugoslavia, imputa alla stampa locale l’incapacità di superare la consueta narrazione prevenuta e consolatoria.

La cosa più difficile in un conflitto non è quando simpatizzi per una delle due parti, disse Bo, ma quando simpatizzi per entrambe. La cosa più difficile è quando entrambe le parti sono vittime, si identificano nel ruolo di vittima, ne hanno bisogno, se ne servono fino in fondo e non vogliono rinunciarci.

Simona Chiodo, filosofa attenta ai rapporti tra architettura, estetica e memoria, a proposito di due noti progetti di Daniel Libeskind, il Museo Ebraico di Berlino e l’Imperial War Museum di Manchester, ha scritto che il grande architetto “sceglie una via differente da un ammorbidimento che rassicura: del conflitto e degli individui mostra l’apice dell’energia distruttiva, costringendo il visitatore a un confronto tra sé e quel che di sé o dei propri simili osserva, malgrado il proprio desiderio di rimozione, con sfacciata evidenza” (https://docplayer.it/19194413-Memoria-di-un-sublime-ground-zero-di-libeskind.html). Bergljot, allo stesso modo, si erige a museo di se stessa, a sacrario della propria infanzia smarrita. Davanti ad una commercialista, un’estranea, una terza parte, legge la sua lettera, per farla finita con la decennale ipocrisia. Il padre intanto è morto cadendo dalle scale. Povero padre… Ora l’energia di Bergljot può trovare sfogo, la sua testimonianza opporsi alla rimozione meccanica degli eventi, la sua carne rivendicare il diritto all’ascolto, la sua sofferenza riscrivere il mito familiare. Ma chi saprebbe scalare un muro di gomma?

Non puoi istruirci, costringendoci a crederti, commentò Åsa, ricorrendo alla stessa parola usata nel mondo del teatro e di cui si era servita durante il funerale. Sicuramente si riferiva a quando, da bambina, faceva parte del mio gruppo teatrale, quello della sorella maggiore, e io facevo la regista, doveva odiarmi già da allora. Le risposi che ne ero perfettamente consapevole, ma che volevo che la mia storia esistesse. Erano sulla porta, con i guanti infilati e i berretti calati, pronte. Åsa disse che quello che era appena accaduto indicava senza ombra di dubbio che noi quattro figli non potevamo condividere le case a Hvaler.

Asa, Astrid e Inga rifiutano l’ereditàpiù importante, quella che deriva dall’accettazione incondizionata della verità.

Eredità Book Cover Eredità
Vigdis Hjorth. Trad. di Margherita Podestà Heir
Letteratura nordica
Fazi
2020
374 p., Brossura