Autore di romanzi, racconti e sillogi di poesia: - Jacob Rohault I giorni di Venezia, edito da CTL Livorno e finalista per il Premio Internazionale Indipendente Cesare Pavese 2016. - L’ intruso nelle vecchie stanze (Pubblicato da Solfanelli editore nel 2017), già finalista per il Premio “Il giovane Holden” 2016 come inedito. - Con gli occhi di Arianna (Pubblicato da CTL Livorno 2018) - Il venditore di pensieri altrui (Segnalato dalla giuria del Premio Charles Bukowski e Pubblicato da Elison Publishing nel 2018) - Diari sospesi (Romanzo Inedito) - Libro di racconti: Viaggi prestati alla scrittura (inedito) - Racconto: Matilde, il viaggio, il cigno nero (Inserito nella raccolta “I sogni muoiono all’alba” edito da Tabula Fati 2018). - Silloge di poesie: Menzione di merito per il Premio Afrodite 2018 e pubblicazione nell’antologia dell’Editrice Montecovello. - Racconto: Prima dell’alba (inserito nella silloge Raccontami l’Abruzzo 2019 Tabula Fati Editore) - Racconto: Il pranzo di Bozsik (inedito) - Racconto: La vacanza (inedito) - Racconto: Virginia, Burley & Latakia (inedito) - Racconto: La via riscoperta (inedito) - Racconto: Eden in città (inedito) - Poesie e nuove poesie (inedito)

VIRGINIA BURLEY & LATAKIA

Di Paolo Massimo Rossi

La notizia che lo zio Rudolph era morto aveva turbato Marius non poco. La comunicazione che aveva ricevuto al mattino era stata inequivocabile. Dunque non si sarebbe più recato nella vecchia casa dove era solito trovarlo in poltrona, accanto al camino in inverno o alla finestra in estate. E non avrebbe più ripetuto il rito, antico e diventato abitudine, di riempirgli la tabacchiera con il tabacco che, come ogni settimana, acquistava nell’unico negozio del paese.

Quella mattina, dalla piccola luce che si palesava nel forellino praticato nel legno del portoncino, capì che la non più giovane domestica Anna-Domenica – il vecchio zio gli aveva raccontato come fosse un’orfana che aveva adottato – stava controllando chi aveva suonato schiacciando il pulsante ottonato del campanello. “Sono Marius,” disse. Lei aprì la porta e subito gli chiese se voleva vederlo.

“Dov’è?” Chiese lui.

“Di là, nella sua stanza,” lo informò la donna con inutile precisione.

 Marius entrò e restò in piedi accanto al letto per qualche minuto osservando i lineamenti cerei del vecchio. Gli sembrava più magro che da vivo, con il naso ancora più scheletrico, e con pochi capelli che a malapena coprivano il cranio bianco e lucido. Si trattenne qualche secondo, poi uscì dalla stanza impregnata di un odore stantio di muffa e di poco pulito. Salutò Anna-Domenica e si diresse verso l’uscita.

Non voleva assistere all’arrivo del prete e di qualche vecchio del paese. D’altra parte lo zio Rudolph non aveva altri parenti oltre lui.

Si rese conto che la morte dello zio non gli aveva provocato la tristezza che si sarebbe aspettato e si chiese se il vecchio avesse mai riflettuto sui sentimenti che la sua scomparsa avrebbe provocato.

Era molto anziano e, in più di un’occasione, gli aveva dato l’idea che considerasse i suoi anni di presenza nel mondo come un passaggio provvisorio, compreso tra il momento che precede l’inizio della vita e quello che ne sancisce la fine. Soleva dire che il tempo vero era quello in cui non si esiste ancora e quello in cui non si esiste più, mentre il tempo di mezzo, quello che riempiamo con la nostra presenza, con i sogni e le fatiche per sopravvivere, era semplicemente una provvisoria illusione. Ecco, erano questi i pensieri che si palesavano alla mente di Marius, quando rifletteva sulla morte dello zio Rudolph.

Quando era uscito dall’appartamento, per avviarsi lungo la stretta scala che scendeva in strada, la domestica gli aveva semplicemente detto: “Dio lo abbia in gloria.” Era un ringraziamento sottinteso o uno spontaneo pensiero di pietà per il morto? Non l’avrebbe saputo. I suoi piccoli occhi a capocchia di spillo, leggermente socchiusi, non avevano lasciato trasparire molto.

D’altra parte, Marius non le aveva dato la soddisfazione di guardarla con modi indagatori o con inutili domande che avrebbero avuto solo un sospiro come risposta.

Anna-Domenica aveva dei figli? Magari potevano essere stati concepiti col vecchio zio in altri tempi, senza che se ne sapesse nulla; insomma, poteva essere stato tenuto all’oscuro dei segreti di una vita. Forse vivevano lontani dal paese, magari in Italia.

Per strada, tornò ancora col pensiero allo zio: quanto denaro aveva lasciato ad Anna-domenica? La casa affacciata sulla valle del fiume sarà stata l’unica proprietà immobiliare?

Molti nel paese ritenevano che Rudolph fosse solo un vecchio egoista, pigro come un gatto da appartamento che aspettava gli portassero da mangiare. Per il resto, aveva certamente sfruttato Anna-Domenica con le peggiori angherie e forse le aveva fatto fare un figlio, promettendole che prima di morire l’avrebbe riconosciuto. Qualcuno aveva profetizzato che sarebbe morto in tempo per sottrarsi all’obbligo.

 Proseguì da solo; l’ultima immagine dello zio gli si riaffacciava alla memoria con maggior precisione: sembrava sorridesse, le labbra bianche della morte erano rimaste lucide, come umide di saliva. Probabilmente era deceduto per una paralisi improvvisa. Marius non sapeva perché, ma la cosa faceva sorridere anche lui che, in tal modo, violava il senso della dovuta e umana pietà. 

  Tutto sarebbe stato diverso se lo zio Rudolph lo avesse nominato erede universale. Si rendeva conto che, malgrado la sua dedizione, il vecchio lo aveva sempre trattato da marmocchio; gli tornavano in mente il suo sguardo assente – che lo feriva oltremodo – e certe frasi lasciate a metà.

   Adesso, l’immagine della sua faccia grigia e rigida da morto lo perseguitava. Forse in un ultimo atto di sincerità voleva confessare qualcosa, con un misterioso sorriso e con le labbra lucide. Marius si era addormentato con questi pensieri e si era svegliato ricordando uno strano sogno.

Lo zio Rudolph era un vescovo che lo interrogava su libri scritti da antichi padri della chiesa. Libri enormi, voluminosi come elenchi telefonici, che sfogliava lentamente. Indugiava quando voleva rivolgergli qualche domanda, alle quali Marius riusciva a dare solo risposte confuse e certamente inappropriate. Il vecchio gli aveva sorriso, scoprendo denti gialli e facendo penzolare la lingua fuori dalla bocca. Il sogno era finito così, o non ne ricordava il seguito.

La mattina successiva, Marius andò al funerale. Aveva camminato dietro Anna-Domenica e, appena finirono di riempire la fossa, lei gli aveva detto: “Se ne è andato in un mondo migliore. Ha finito di aspettare, la sua vita si è finalmente conclusa.”

Una donna in piedi accanto a loro, con un’espressione di circostanza sul viso, aveva chiesto: “È morto serenamente?” ed era rimasta in attesa di una risposta. “Serenamente,” aveva convenuto Anna-Domenica.

Decise di andare a mangiare nella città più vicina, in un ristorante a buon mercato. Il proprietario Bernardo, immigrato dall’Italia anche lui, parlava con dei clienti che sembrava conoscere da molto tempo. Raccontava della casa di famiglia, dove, circondato da un vecchio muro sbrecciato, c’era un giardino incolto nel cui spazio lui e suoi compagni giocavano al Far-West. Un cane bastardo, che chiamavano Buriana rappresentava un cavallo selvaggio da domare, e un gatto, detto Bechicchi, era un puma da uccidere.

Ricordando quegli episodi, a Bernardo era venuta l’ispirazione per scrivere una commedia teatrale. Parlava del figlio e della sua vocazione al sacerdozio, cosa che lui non capiva, ma che, in ogni caso, avrebbe rispettata.

Finito il pranzo, a Marius venne da pensare che tutto sarebbe stato diverso se lo zio Rudolph gli avesse lasciato i suoi beni; non avrebbe più mangiato da Bernardo, se non qualche volta per ricordare antiche convivialità.

Tornando a casa, sulla porta trovò Anna-Domenica con un’espressione compunta sul viso; in mano aveva un pacco legato con una cordicella. Gli disse: “Avevo dimenticato questo. Glielo lascia suo zio. Devo chiederle scusa, anzi perdono”

Marius chiese perché. Quella rispose: “Volevo tenerli per me, senza rivelarle nulla …” Una lacrima cominciò a bagnarle il viso. “Mi vergogno, ma adesso voglio rimediare e vorrei che lei mi considerasse una persona onesta.”

Le prese il pacco dalle mani; la carta che lo avvolgeva era strappata in più punti e la cordicella che la teneva legata era stata tagliata e riannodata. Scartò l’involucro, conteneva due libri: Il Piacere di Gabriele D’Annunzio e Finale di partita di Samuel Beckett. Dunque Anna-Domenica aveva controllato, poi, preso atto che non c’era nulla di valore, aveva cercato di rimediare, non in nome dell’onestà, quanto per non perdere il biglietto per il paradiso. Restava da capire il senso: un messaggio? Un semplice lascito di qualche libro trovato per caso nella libreria? Forse solo una misteriosa allusione.

Aveva ormai archiviato il funerale. Da quel momento in poi, la sua indigenza sarebbe stata ancora più pesante.

Decise di attraversare col traghetto il fiume che divideva in due la città.

Sedette su una panchina del natante e si limitò a guardare il paesaggio e la gente al suo fianco: un ebreo, riconoscibile per lo zucchetto che portava sul colmo del cranio e due operai ancora con la tuta da lavoro. Uno di loro chiedeva all’altro quante innamorate avesse, affermando lui di averne tre; al che il suo compagno rispose di non averne nessuna.

Il primo sembrò non credergli; sorrideva e aggiunse che tutti i giovani, quali loro erano, ne avevano almeno una e che l’altro stava mentendo.

Poi, cominciò a raccontare di una delle tre, quella che avrebbe scelto dopo aver liquidato le altre prima del fine settimana. La descriveva con dei bei capelli biondi, con tanti ricci, e con delle mani bianche come non ne aveva mai viste. Ne parlava come se tutti fossero a conoscenza del fatto e provassero un’invidia neanche tanto repressa. 

Marius li ascoltava, mentre era affacciato al parapetto del battello, gli occhi fissi nell’acqua scura. Uno di quelli dette di gomito all’altro dicendo: “Spostiamoci, c’è questo tizio accanto che ascolta. Un curioso invidioso e anche un morto di fame, da come è vestito.”

Si allontanarono di qualche passo, poi uno di loro tornò indietro, si accostò e disse: “Perché ascolta con una curiosità morbosa quello che il mio amico racconta? La prossima volta le buttiamo giù in acqua.”

Marius rimase stupito davanti a quella minaccia Fu indeciso se rispondere, ma il battello urtò contro la banchina di attracco, mentre quello si allontanava dicendo: “Stronzo.”

Scese a riva e si avviò verso quella parte della città che conosceva meno. Gli tornarono in mente certe atmosfere scolastiche e del modo con cui si castigavano gli alunni. Certi ragazzi, si diceva, avrebbero meritato ben più che degli schiaffi, piuttosto delle frustate: non c’era niente di meglio se si è violenti o indisciplinati. In genere, queste affermazioni gli apparivano ridicole, anche se, personalmente, non aveva mai dovuto subire simili punizioni.

Probabilmente i tempi erano cambiati.

Dopo aver camminato per qualche minuto, sedette al tavolo di un bar all’aperto e ordinò una birra. Guardandosi intorno, si accorse di due occhi grandi e verdi che sembrava lo stessero guardando. Era una bella ragazza, coi lineamenti decisi, capelli nerissimi, doveva essere alta e slanciata.

Immaginò di conoscerla da tempo e di averla incontrata passeggiando. Fantasticava che gli venisse incontro lungo un viale alberato, con un passo deciso ed elegante, facendogli battere il cuore.

 Aveva un atteggiamento vagamente severo, indossava un impermeabile chiaro e stretto alla vita che lasciava intravedere delle belle gambe. Si fece coraggio, si alzò e le chiese se volesse bere qualcosa in sua compagnia. Lei lo guardò con aria irritata, lasciò del denaro sul tavolo e andò via senza rispondere. Sparì dietro l’angolo della strada e Marius fu preso da un senso di vergogna e malinconia per essere stato sciocco nel rivolgerle la parola. Avrebbe voluto correrle dietro per dirle che era felice di averla rivista e che aveva desiderato da tanto quell’incontro. Si scosse e prese a ridere di sé.

Erano ormai passati dei mesi dalla morte dello zio Rudolph e Marius si era stabilito a Londra.

In un caldo pomeriggio d’estate, scendeva giù dalla collina di Parliament Hill in compagnia dell’amico Palmer che gli parlava già da qualche minuto.

Il suo era un lungo monologo, raccontava degli anni in cui era vissuto in America, a New York per la precisione. A seconda degli episodi che ricordava, il suo viso cambiava d’espressione; a volte guardava il compagno con aria interrogativa, ma sempre conservava un’espressione serena, al più vagamente ironica.

A un certo punto del racconto, doveva aver parlato di un qualche avvenimento particolare che Marius, distratto dalla folla che saliva e scendeva, non era riuscito a seguire.

Udì Palmer esclamare: “È veramente il colmo!” Senza che si capisse a cosa si riferiva. Erano arrivati in fondo alla collina e si fermarono davanti al Dôme.

“Entriamo,” disse Palmer, “Forse ci sarà anche Stuart.” Effettivamente lo videro seduto in un divanetto in fondo al locale, a un tavolo appartato, accanto a una ragazza con un gran petto, insignificante per il resto. Stuart fece segno con una mano di non avvicinarci, con l’altra la palpava; mentre lei rideva e accostava la bocca alla sua.

Dopo qualche minuto, si alzarono e lui l’accompagnò alla porta, poi tornò indietro e sedette con i due amici. “Lavora in una lavanderia,” li informò.

“Non è che sia molto carina,” osservò Palmer, che continuò: “Sarai mica innamorato?”

“Che scemenza,” rispose Stuart, “Potrebbe essere mia figlia.”

E Palmer: “Avrà il gusto dell’orrido o il complesso di Edipo.”

Per qualche minuto Marius rimase a guardarli, restando in silenzio.

Pensava che la ragazza doveva avere una salute rigogliosa che le colorava il viso e rendeva il suo sguardo molto sfrontato. La sua bocca era rimasta aperta in una smorfia impudente per tutto il tempo, mostrando i denti incisivi piuttosto sporgenti.

Ordinarono delle uova con prosciutto, e una cameriera portò i piatti con una forchetta, un pezzo di pane nero e una birra a testa.

Più tardi, camminando da solo, Marius pensò che la vita gli aveva inasprito il cuore per l’indifferenza del mondo. Si consolò con la sensazione di avere la pancia piena.

Mentre procedeva, vide un gruppo di persone sul marciapiedi ferme in circolo e che parlottavano tra loro.

Si accostò, un uomo era disteso sul selciato. Uno dei presenti diceva che quel tizio gli stava camminando davanti poi, improvvisamente, aveva iniziato a barcollare ed era caduto lungo disteso, sembrava morto.

 Qualcuno, preoccupato di chiamare un’ambulanza, entrò in un negozio di fronte dicendo che andava a telefonare. Poco dopo uscì dicendo: “Arrivano.”

C’era chi tentava di sollevare la testa dell’uomo disteso, un altro disse che bisognava fargli delle pressioni violente sull’addome all’altezza del cuore, ritmicamente, senza fermarsi.

In quel momento arrivò l’ambulanza da cui discesero degli infermieri che lo caricarono su una barella. Marius vide che un filo di sangue usciva da una ferita sulla fronte.

Uno degli astanti, rivolgendosi a quello che aveva parlato per primo, chiese se il ferito stesse camminando da solo. Quello rispose di no, che era con altre persone – non sapeva quante – che avevano proseguito con atteggiamento indifferente, e aggiunse che forse l’uomo disteso era solo svenuto.

Un poliziotto appena arrivato, s’informò se qualcuno fosse in grado di descrivere il fatto. Tutti negarono: il ferito, o il morto, stava camminando ed era improvvisamente caduto.  Il poliziotto andò via dopo aver preso le generalità di tre o quattro testimoni.

Marius, a cui non erano state rivolte domande, si chiese se lo sconosciuto poteva essere stato felice qualche volta nella vita, o se la sofferenza lo avesse segnato nel corso degli anni. Aveva mai pensato che la morte lo avrebbe aspettato su un anonimo marciapiedi cittadino?

Avvenimenti sgradevoli ultimamente avevano segnato i giorni di Marius: soprattutto l’incontro con quegli arroganti sul battello e lo sconosciuto morto sotto la collina di Parliament Hill. 

Per consolarsi e distrarsi, decise di andare a trovare la sua vecchia amica Vivien. Ne avrebbe beneficiato sicuramente il suo stato d’animo che, al momento, era piuttosto depresso.

Lei lo accolse con un certo stupore sul volto: “È un po’ che non ti si vedeva!” Poi lo baciò frettolosamente.

Marius si guardò intorno, alle pareti c’erano nuovi dipinti, piccoli, dentro cornici di plastica o legno scadente. Vivien sembrava in procinto di uscire, gli chiese come giudicava la sua nuova giacca a fior di culo, da mezza stagione. Poi lo avvisò che aveva iniziato a scrivere un romanzo.

“Una storia sentimentale!” Disse.

“Nel senso di una storia d’amore?”

“Non come si potrebbe immaginare!”

“Spiegati.”

“È identificata da un colore.”

“Che colore?”

“Mi viene in mente un color pernice, che deve dare una sorta di impronta alla storia.”

“Ma i protagonisti chi sono?”

“Non ci saranno personaggi, il romanzo classico ormai è morto.”

“È una vecchia storia che ogni tanto ritorna.”

“Nella mia, sono i colori i protagonisti e che si amano!”

“E quale colore ama il pernice?”

“Qualsivoglia pigmento che sappia apprezzare una sfumatura sentimentale, che si noti poco, che appaia in controluce, trasgredisca con nonchalance e non tenti d’imporsi.”

“Fammi un esempio.”

“Un violetto pallido.”

“Sembra una storia interessante.”

“Si amerebbero in alto, nel cielo, all’ora del crepuscolo,”

“Ci sarebbe altro?”

“Ovviamente qualche tradimento, com’è ovvio in ogni romanzo che voglia avere successo.”

“Quando sarà in libreria lo acquisterò.”

“Scusami, adesso, devo uscire.”

Si avviò alla porta ignorando Marius, quasi non fosse esistito, però lo gratificò con un bacio sulle guance.

Marius uscì e si avviò a piedi. Non voleva riflettere più di tanto. Gli restava addosso la sensazione che il vecchio zio gli era stato infedele e il tempo in cui tutto era avvenuto diventava sempre più un labirinto senza via d’uscita.

Forse erano le stesse esperienze della vita che imponevano una necessaria riserva mentale sugli eventi di cui era stato testimone.

Come in altri tempi era stato fatto con certi libri, sono gli stessi fatti insignificanti che dovessero essere proibiti.

Anche se gli restava il dubbio che a volte dal male può nascere il bene e, altre, dal bene il male.

L’immagine di copertina è Sulla soglia dell’eternità di Vincent van Gogh