Interstellar, l’eroimso e l’amore ai tempi del posthuman
Di Giacomo Colomba
L’eroe e’ uno dei dodici archetipi junghiani, ed in quanto archetipo, soggetto a costanti reintrerpretazioni relative ai parametri dei tempi correnti. L’eroe è una posa dell’anima, un vettore interiore, uno dei colori dell’arcobaleno implicito in ognuno di noi e nella nostra civiltà. L’anima avrebbe creato questo universo tanto complicato proprio per sperimentare anche la gioia dell’eroismo. Ai suoi apici, quando necessario, maturo e puro, l’eroe è uno dei ruoli più potenti che si possano assumere nella società, e può toccare radici tanto profonde da sfidare e disfare le poche cose certe dell’esistenza, come la morte e l’inarrestabilità del tempo.
Interstellar in qualche modo rappresenta in questo senso un’evoluzione del vecchio eroe che sacrifica la propria vita per permettere agli altri di vivere in un mondo migliore, come il vecchio Mad Max che vaga solo nel deserto dopo aver permesso agli altri di volare via. Questa versione dell’eroe, fortemente paterna quando non paternalistica, fa parte di tutto un insieme di vecchi mitologemi maschili da destrutturare, destrutturazione alla quale il maschio stesso dovrebbe partecipare coscientemente.
Cooper, il protagonista, e’ un buon padre ed un buon agricoltore, la nuova figura di eroe imposta da una società orientata verso un’ecosostenibilità molto di moda, una ribellione alla società della tecnica che non integra il bene apportato dalla scienza, un ritorno all’antichità naturale nella sua versione più romantica, perchè molti ignorano che la vita nella natura è dura e pericolosa. Però oltre ad essere un agricoltore, Cooper è anche un ingegnere. Esso è tecnica e natura. Ma un vero eroe non può essere solo un padre, deve necessariamente essere anche un bambino, e nel mezzo di queste due tappe c’è un abisso chiamato morte, un abisso inconscio, attraversabile dagli dei ma non dagli umani, il famoso arcobaleno la cui incalpestabilità ha scolpito nella roccia le responsabilità ed i privilegi del padre eroe. Lazzaro ha camminato su questo ponte, ma prima ha dovuto attraversarne il fondale. Ed infatti in Interstellar troviamo le missioni Lazarus, che rappresentano la possibilità di evitare l’estinzione mandando a morte i dodici migliori esploratori spaziali della storia. Per riformulare un archetipo bisogna entrare nel suo mondo, quello dei paradossi, dove nello specifico abbandonare la Terra e salvarla coincidono.
Ci sono tutti gli ingredienti per una rivisitazione dell’eroe in chiave filosofica posthuman. Per dirla in due righe, la caratteristica distintiva della filosofia posthuman è quella dell’andare oltre i dualismi della mente, che divide la realta’ in due poli, creandone inevitabilmente uno positivo ed uno negativo: nord sarebbe meglio di sud, Occidente di Oriente, bianco di nero, maschio di femmina, umano di animale, culturale di naturale, vivente di non vivente, e cosi’ via. La visione posthuman della realtà comincia col tentativo di liberarsi di questi polarismi e dare cosi’ alla coscienza la libertà di muoversi liberamente in territori senza più confini controllati da gente piena di armi o di dogmi.
Torniamo ad Interstellar. Da una parte abbiamo l’eroe, il prescelto, il rappresentate dell’umanita’ che parte all’avventura per salvare la propria famiglia, in senso sociale ed in senso tassonomico. E’ un viaggio in tutto ciò che l’eroe non è e non può essere, in un buco nero che invece rappresenta il femmineo, l’inconscio e l’irrazionale prodotto nei nostri tempi. E non a caso questo immenso grembo oscuro nasconde in se’ il potere della rinascita e dell’immortalità, ancora una volta sia per l’individuo che per la specie. La vera vita e’ nascosta nelle profondità di tutto il femmineo rimosso da millenni.
Ed è lì in quel ventre eterno che accade tutto, fuori dal tempo e dallo spazio, dove l’eroe trascende i suoi antichi connotati. Il padre piega il tempo, divenendo più giovane della figlia, che in fin di vita lo tratterà così maternalmente. Entra quindi nel grande grembo per ridarsi nascita. E’ padre ed e’ figlio, per tanto immortale, scoprendo che in realtà la vera eroina e’ la figlia, e che con lei, forse, lo siamo tutti, ognuno a modo proprio. Cercando di servire scrupolosamente i propri figli e la propria specie egli ha servito le potenzialità immortali della propria anima. Ed in realtà è se stesso che ha salvato dai limiti del tempo e dello spazio, facendo convergere padre e figlio in un unica figura. L’immortalità non è forse il substrato necessario per un eterno sacrificio? Cosi’ il padre che necessita del sacrificio per sentirsi un eroe compiuto, potrà esserlo per sempre; mentre il figlio, che ha bisogno di infinita protezione ed infiniti inviti verso infinite avventure, trova in questo sovrapporsi di sacrificio-immortalità il suo parco giochi perfetto. L’anima e’ un giocoliere di paradossi che non si vieta niente, e comincia dove la mente si infrange con la sua incapacità di afferrarli.
Ma non è tutto, c’è in Interstellar un’ulteriore passaggio evolutivo, quello dal “Loro” al “Noi”. La forma mentis religiosa ci impone di immaginarsi un “Lui” od un “Loro” ogni qual volta miracolo e prodigio si manifestano. Per secoli abbiamo recluso ogni divinità nei cieli sempiterni, rifiutando ogni potere come fosse un tranello sulla strada di un paradiso che somiglia un po’ troppo ad una casa di riposo. All’apice di Interstallar, Cooper, l’eroe che ha piegato il tempo e che, entrando nel femmineo assoluto da’ nascita a se’ e all’umanità, capisce che non si tratta di un “Loro” ma di un “Noi”. Siamo sempre stati noi, come ci dicevano i padri ancestrali e come ci rammenta la scienza quantica: tutto è uno, non può esistere un loro perchè è sempre e supremamente un Noi ad essere. Quel Dio in grado di piegare le dimensioni, quell’amore in grado di muoversi liberamente nel tempo, sono solo altre versioni di questo Noi al quale non riusciamo ancora a partecipare. E’ l’ennesimo sacrificio su un altro livello della scala eterna: la versione divina a cinque dimensioni dell’umanità ci viene incontro aiutandoci a sopravvivere l’estinzione, nella misura in cui un piccolo ingegnere e agricoltore padre di famiglia si mette in viaggio per aiutare la propria figlia a sopravvivere. Ciò che noi facciamo al centimetro quadrato di mondo di cui siamo responsabili, l’universo lo fa a noi, in un loop in cui sacrificio, oggetto sacrificato e sacrificatore diventano tutt’uno senza consumarsi. Perchè lo sono sempre stati.
Su questa strada dall’uomo animale che pensa solo alla sua piccola vita ed all’eroe in grado di sacrificare tutto per salvare (ed amare) tutto, Cooper trova un ostacolo, Mann come “man”, l’uomo medio che non riesce a sacrificarsi pienamente perchè il suo istinto di sopravvivenza animale e’ ancora troppo prevalente. Il vigliacco definitivo, l’ero mancato, colui che antepone l’io al loro, colui che vuol tornare indietro quando tornare indietro e’ un privilegio concesso solo a chi abbia la volontà di andare fino in fondo, al confine di tutto. Solo chi ama può andare avanti ed indietro senza rimpiangere niente.