Nel girone dei bestemmiatori. La classe operaia non va mai in paradiso
Di Geraldine Meyer
Si chiude, con questo Nel girone dei bestemmiatori, la trilogia che working class che, Alberto Prunetti aveva cominciato con Amianto e proseguito con il bellissimo 108 metri. The new working class hero. In questo capitolo finale, in poco più di cento pagine troviamo forse una delle più divertenti, e commoventi al contempo, elegie della classe operaia. Costruita, è il caso di dirlo, più ancora che scritta, proprio con parole usate come attrezzi. Che restituiscono tutta la forza, l’ironia e l’epopea di quella classe che, non solo non è mai andata in paradiso ma che continua a vivere nei vari inferni di cui è fatto il mondo.
In queste pagine, dolci e dure, un padre (Alberto stesso) racconta alla figlia Elettra le gesta eroiche del nonno Renato, operaio anche lui e ora a usare i suoi attrezzi nelle remote regioni dello spirito. Tra acciaierie, fonderie, sudore e sporco, bar e partite a calcio, Renato torna come personaggio e emblema di tutta una storia, di tutto un modo di stare al mondo. Un atto d’amore di un figlio a un padre che del lavoro e della vita faceva la stessa cosa, una traversata di fatica ma anche di tanta gioia vitale.
Un rocambolesco sogno in cui Renato sarà condannato alla manutenzione dei gironi infernali, tra invettive salaci e battibecchi con Dante Alighieri e l’armonica di Steve McQueen che farà da accompagnamento musicale alla più grande evasione della storia. Perché operai in vita, si resta operai nell’eternità e tra Padrone e Padreterno la differenza non è poi così sostanziale.
E mentre si ride e un po’ si piange anche, Nel girone dei bestemmiatori, si torna sulle Colline Metallifere di quella Toscana così diversa da quella patinata ad uso turistico, in una Follonica che è stata il centro di una industria mineraria e metallurgica pregna di storia e dignità. Una terra in cui l’aperitivo dei ricchi era il più autentico vino rosso nei circolini operai, in cui le partite di calcio di squadre delle categorie inferiori erano un altro modo per continuare la lotta di classe. Una terra una volta ricca di sale, prima che la mano pesante della Solvay se lo accaparrasse tutto lasciando al popolo solo il sudore del salario, “la moneta per la razione di sale”. Una terra in cui anche i proverbi sono come gli operai e raccontano di come i padroni han sempre cercato di fregarli. Parole come attrezzi che costruiscono queste pagine, di eredità in eredità, tra nonno, padre e figlia: “I modi di dire di Renato sono la cassetta degli attrezzi che mi ha lasciato.” – scrive Prunetti – ed è proprio questa la cifra di tutto il libro.
Perché le parole, per un operaio, erano strumenti. Con gli strumenti ci facevan il mestiere, con le parole ci facevan la vita. Ed entrambe, nell’epica operaia e nell’etica operaia, erano usate con precisione e onestà. Per questo Renato ironizza con Dante che crede di aver raccontato l’inferno vero, ignorando come l’inferno degli operai abbia un caldo e una durezza che solo chi li ha vissuti può narrare. E colpisce, nel libro, anche questo non troppo velato invito a una letteratura che parli solo dopo essersi sporcata le mani. E proprio questa è la commedia operaia, quel groviglio di racconti e bestemmie che reinterpretano i miti e la letteratura stessa per diventare un’altra letteratura.
È la letteratura che racconta, attraverso le parole di Renato, una comunità che, dopo l’inferno della fabbrica, viveva comunque all’aperto, una comunità che era condivisione di spazi e rumori. Poi la fabbrica e il capitalismo hanno frammentato quegli spazi, quei rumori, chiudendo ciascuno nel silenzio delle case, uniformando il tempo, quel tempo tutto uguale, in cui si lavora sempre, mica come quelle domeniche, di tempo liberato più che di tempo libero, in cui “dopo i tortelli si andava allo stadio e poi al bar sport” in quello che era un vero e proprio rito.
Poi, nel tempo, i riti hanno smesso di esistere e ciò che era libero e nell’ordine delle cose, diventa un simulacro a pagamento: “ A metà anni Ottanta i ricchi s’erano comprati ogni cosa: il paese, il futuro e anche il calcio. Era diventata roba loro, mica nostra. E all’improvviso nessuno giocava più a pallone per strada. Spuntavano ovunque campi chiusi […] e noleggiabili a pagamento.”
E tra aneddoti di famiglia, rocambolesche e oniriche scene di un inferno dantesco in cui Dante però non è più così credibile, ascoltiamo tutta intera una storia operaia più grande, una storia operaia che è sempre uguale e sempre diversa. Tra morti per eternit e incidenti sul lavoro, ex Ilva di Follonica e rivoltosi che arrivarono addirittura da Santo Domingo, si ride, si piange e si viaggia tra pagine in cui la coscienza di classe non è uno slogan da anime belle.
Letteratura del lavoro
Laterza
2020
109