Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

Il vagabondo delle stelle. L’invincibile immaginazione

Di Geraldine Meyer

La prima volta che lessi Il vagabondo delle stelle, capolavoro di Jack London, la mente andò immediatamente ad un altro meraviglioso libro, Il bacio della donna ragno, di Manuel Puig. Forse dai più conosciuto per la versione cinematografica che, nel 1985, ne trasse il regista Héctor Babenco. Anche lì vi era una cella e la storia raccontata era quella del rapporto umano che si instaura tra i due prigionieri, un dissidente politico e un omosessuale (magistralmente interpretato da William Hurt che per quel ruolo vinse anche l’Oscar) imprigionati durante la dittatura argentina. Anche in quelle pagine a salvare i due protagonisti era l’immaginazione, la forza di astrarsi dal contingente per evadere dalle mura della cella. In quel caso era William Hurt che faceva uscire con la fantasia i due uomini, raccontando scene di vecchi film.

In questo meraviglioso Il vagabondo delle stelle, la storia pur diversa, ci porta sempre nei territori di quello spirito che, niente e nessuno, può realmente imprigionare. Quel nucleo di libertà che resta inscalfibile anche nelle condizioni più dure. E che, anzi, dalla disumanità del regime carcerario traggono maggior forza.

La storia è quella di Darrell Standing, nella vita libera professore di Agronomia al College of Agricolture dell’Università della California. Noi lettori lo conosciamo quando la sentenza della sua condanna a morte è già stata decisa e quello che leggiamo, narrativamente parlando, è il suo diario. Standing, detenuto a San Quintino in regime di ergastolo, sarà condannato a morte perché ritenuto un detenuto incorreggibile. La sua “ribellione” comincia quando viene fatto lavorare nella fabbrica di iuta del carcere. Qui Standing non mancherà di criticare i metodi poco efficienti che causano quelli che lui definisce assurdi sprechi. La prima punizione non fermerà di certo la sua fame di giustizia, di qualunque tipo essa sia. Mandato successivamente a lavorare ai telai la sua critica si rivolgerà alla vetustà dei macchinari. Messo a pane e acqua e in camicia di forza, chiederà udienza al direttore del carcere, l’ottuso e violento Atherton, al quale rivolge pesanti accuse sulla stupidità dell’organizzazione carceraria.

Una tale fame di giustizia, un tale spirito critico non possono certo essere ritenuti compatibili con un sistema, quello carcerario, che può sopravvivere solo con la soppressione di qualunque tipo di messa in discussione. Ma il punto di svolta tragico per Standing (un nome forse non casuale) arriverà quando farà la conoscenza con il falsario Cecil Winwood, un viscido poeta che, per ottenere uno sconto di pena, non esiterà di accusare Standing di avere nascosto della dinamite e di essere complice di un clamoroso piano di evasione. Mentre Winwood ottiene la grazia proprio in virtù di una menzogna, Standing verrà condannato a morte per il suo rifiuto di ammettere qualcosa che non ha mai commesso.

Nel tentativo di fiaccare la sua resistenza, il direttore lo sottoporrà a sessioni, sempre più lunghe e atroci, di camicia di forza. E sarà proprio durante tali torture che Standing inizierà e divenire “vagabondo delle stelle”, viaggiando nel tempo e nello spazio. Raccontandoci di quando era un re, poi un nobile, di avere assistito all’agonia di Gesù accanto a Pilato, e via via, di avventura in avventura. Standing lancia una sfida ad Atherton che Atherton accetta pensando di fiaccarlo, di estirparne la carica vitale, ogni resistenza. Ma non sarà così. Standing è invincibile. Impara a far morire il corpo, la materia, per uscire dalle mura della prigione, per sconfiggere l’assurdità e la gratuita violenza di un sistema carcerario tanto ottuso quanto criminale.

Si può davvero dire che questo Il vagabondo delle stelle sia un Jack London all’ennesima potenza, con la sua straordinaria capacità di raccontare avventure ma anche con il suo essere scrittore realista, sempre in prima fila nella denuncia e nella testimonianza politica. In fondo cos’altro è questo libro? Un feroce, potentissimo atto d’accusa verso tutto un sistema con i suoi abusi perpetrati dal potere di chi si crede più forte.

Non a caso questo libro venne definito anche “saggio narrativo”. Perché se è vero che si tratta di un’opera di narrativa, è altrettanto vero che le infinite vite vissute nel tempo e nello spazio da Standing, in fondo sono ricche di quei dettagli, materiali e politici, vissuti dallo stesso London. Che di vite ne visse davvero tante. E non mancano i critici letterari che tra queste pagine videro anche una sorta di eco nietzschiana in quell’eterno ritorno di Standing, di tempo in tempo, di morte in morte. Ma non mancano certo elementi bergosniani e di Pascal in quel richiamo alla storia dell’umanità come storia di un’unica anima, che esisteva prima di tutto.

Insomma, un libro ricco di altri libri, di richiamo, di suggestioni. Un Jack London immenso.

Il vagabondo delle stelle Book Cover Il vagabondo delle stelle
Gli Adelphi
Jack London. Traduzione di S. Manferlotti
Letteratura americana
Adelphi
2005
400 p., brossura