Eros e thanatos ne I racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini
Di Rosella Lisoni
Nel libro ho cercato di decodificare il linguaggio cinematografico pasoliniano inerente al film I Racconti di Canterbury, tenendo presente e l’ideologia del regista e il contesto storico all’interno del quale egli ha operato e la sua attività di letterato, poeta, giornalista, critico cinematografico oltreché cineasta.
Di fondamentale importanza per la realizzazione del suddetto lavoro è risultato l’esame dell’opera chauceriana e in particolar modo dei Canterbury Tales, fonte letteraria alla quale Pasolini si è ispirato per la realizzazione del suo film. Le analogie e le similitudini tra il poeta inglese e il regista sono stati oggetto del mio studio e grazie ad esse ho potuto raggiungere una migliore comprensione del film e delle motivazioni che hanno indotto Pasolini ad avvicinarsi all’opera di G. Chaucer.
Analogie e similitudini fatte proprie dal regista e reinterpretate, dando alla luce un’opera estremamente originale e poetica, un film nel film, quasi un meta film in cui gli attori e noi spettatori assistiamo alla creazione filmica e scopriamo come il personaggio principale dell’opera sia lui:Pasolini.
Il narratore onniscente che tutto sa, tutto vede, che dall’alto del suo ingegno fa muovere l’uno o l’altro dei suoi personaggi seguendo la sua personale concezione aristocratica di regia. Il regista infatti interviene in maniera significativa sulla pagina scritta nel 300 da Chaucer riducendo il dialogo nella sfera del visivo.
Per impostare il racconto filmico, dal corpus Chauceriano di ventiquattro novelle, Pasolini ne estrae otto, le più cupe, le più buie, quelle che evidenziano al meglio come i valori della borghesia esaltati da Chaucer, siano diventati per Pasolini dei disvalori, come la forza creatrice dell’eros legata all’ottica del guadagno si muti in thanatos. L’ intento del regista è quello di voler creare un’opera che ogni spettatore possa intendere come vuole, ma il cui vero senso e la reale dimensione le conosce solo l’Autore, che forse non vuole rivelarle che a se stesso per non privarsene.
Se l’intentenzione è quella di ricreare l’autentico indietro nel tempo Pasolini fa parlare i suoi personaggi con un linguaggio popolare, dimenticato, mettendo in bocca ai personaggi del film un inglese “reale”, nelle sue multiformi espressioni che vanno dalla parlata scozzese al dialetto londinese, usando una lingua viva all’interno della quale coesiste una molteplicità di dialetti.
Analogamente il regista monta, per la versione italiana del film, un misto di parlate dialettali lombarde e venete e fa doppiare i suoi personaggi non da attori professionisti, ma da gente comune. A livello tematico ritroviamo assunti cari al regista friulano quali l’immanenza della morte, la polemica contro l’intolletanza e l’ipocrisia della giustizia borghese e il mito della paternità colpevole e mancata. E’ il dramma individuale e comunitario che si risolve nel grande dramma dell’incomprensione. Il film è dominato da silenzio e la musica interviene per suggerire il significato laddove l’immagine è soltanto allusione.
Molti nel film i riferimenti pittorici: da Bosch a Brueghel, ma i Racconty di Canterbury sono soprattutto un esempio di cinema attraversato da altro cinema: quello di Dreyer, di Mizoguchi, di Bergman, di Kurosawa. Il piacere pasoliniano di omaggiare un cinema da lui tanto amato si unisce al “piacere di raccontare per il piacere di raccontare” come egli stesso ebbe a dire alla fine del film. Momento in cui la scrittura si libera dagli imperativi pedagogici, del dovere e si apre alla dimensione felice, innocente del piacere. E’ questo l’intento del regista e in questo consiste l’interesse del film, cioè il rapporto tra l’artista e la sua opera e la presenza del regista all’interno del film dona al film una certa coerenza all’interno del variegato narrare che fa seguito al prologo.
Saggistica
Sette Città
2020
84 p., brossura