Sono nato in provincia di Arezzo e vivo a Roma da sei anni. Mi sono laureato in Arti e scienze dello spettacolo alla Sapienza e sto conseguendo la magistrale in Editoria e scrittura nello stesso ateneo. Per le edizioni SuiGeneris ho pubblicato il mio primo libro dal titolo "Si innamoravano tutti di me e io del loro amore". Recentemente ho vinto il premio Ossi di Seppia e sono finalista del premio Alda Merini.

Di Fabrizio Sani

Cosa metto dentro a un ricordo di me a 13 anni

Due scarpe da calcio numero 42.

Al loro interno una biglia,

diverse paia di occhiali sottili,

il tasto avanti del telecomando,

la foglia dell’ippocastano,

mezzo bicchiere di cedrata,

pezzi di unghie, la scheggia

che manca dell’incisivo,

lo stropicciato foglio di un diario,

bianche gocce di sperma, un sassolino preso dal bosco,

l’una e venti,

due ciuffi di capelli: una con il gel e una senza,

la penna blu. La foto

con cui ho formato l’immagine di me

nei primi ricordi,

prima di scoprire che fosse mio fratello.


Buia montagna

Il mio cuore è una buia montagna.

Mi è straniero il mio cuore. Per lui sono costola.

Non ha pretesa di ragione su di me,

prosciuga senza interesse questo squarcio nel mondo

che sono, e che da lui si nasconde.

La mia condotta oltre lui è infruttuosa ricerca di chiarezza,

per non accettare che la chiarezza non sia verità.

Il mio cuore è la sola verità,

inaccettabile: egoismo e inquietudine.

L’inquietudine di accogliere l’egoismo innocente dei gesti quotidiani,

per fronteggiare l’egoismo dell’eterna inquietudine.

Che cos’è il mio cuore se non questo squarcio nel mondo,

sepolto da una grandine scura che è una voce non dovuta?

Cosa sono io se non un nascondiglio

fine a nascondere che mi sto nascondendo?

Che cos’è questa verità se non una forza

che costringe ogni pomello

di ogni porta

di ogni stanza che non la contiene?

Che cos’è questa voce se non quell’attimo di luce

nel perdurante buio di questa montagna?

In altre parole, quell’attimo di felicità

precedente a una lunga nostalgia.

Una lacrima in camicia precipita in un campo di girasoli,

fosse stata una rondine la sua vita avrebbe avuto un senso.


Veduta di campagna con bar

Le macchine procedono a velocità dissonanti davanti al bar,

io riconosco le persone che le guidano.

L’aria assume le tinte gialle del neon.

È uno stato emotivo cui non riesco a adattarmi. 

Il Bianchi viene a comprare mezzo chilo di pane

e la pagnotta per Agata alle dieci in punto,

Flavio e il Cioni fanno avanti e indietro in moto 

Perpetuo, per Campari e birra “ghiacciata, mi raccomando”.

Vittorio finisce di pranzare prima di mezzogiorno

e viene a prendere caffè e Futura e poi chiede:

“ancora non c’è Bronzino?”, e così via.

Ronzano nel sottofondo i frigoriferi,

tintinna il perno arrugginito della ventola,

dalla cucina si incuneano timbri metallici e aroma unto.

Come affacciato a un fiume, osservo fluire

le battute riciclate di bar in bar dai clienti.

Con cadenza regolare viene urlato il mio nome

e mi riacciuffa questa assurda dimensione.

La mia giornata è una sedia.

S’inabissa nella notte e riemerge identico.

Dio è qui che ha appiccicato la sua gomma da masticare.

Vorrei accadesse qualcosa, anche la più tragica,

per compiacere la mia nevrastenia e far cedere
il chiodo che sorregge questo quadro intollerabile.

Penso a Bucarest, a un fratello che ci abita:

è un’ora più vicino ai sogni.