Il Tibet in tre semplici passi
Di Geraldine Meyer
Il Tibet in tre semplici passi è il secondo libro di Pierre Jourde che, grazie a Prehistorica Editore, anche i lettori italiani possono fortunatamente trovarsi tra le mani. Dopo Paese perduto ci troviamo tra le pagine di un altro libro in cui i luoghi diventano teatro di esplorazioni non solo geografiche. Il Tibet in tre semplici passi, infatti, è qualcosa che va ben al di là della cronaca di viaggio, del diario di una scalata. C’è, in questo libro, un’eco filosofica oltre che politica.
Pierre Jourde, che a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, in tre momenti diversi esplora le desertiche valli dell’Himalaya per raggiungere Zansakar, ci conduce in un racconto che smaschera l’ipocrisia occidentale rispetto ai viaggi e, ancor più, rispetto al modo di porsi dinanzi all’Altro. L’epopea tragicomica di quattro ragazzi di banlieue diventa il racconto di una sfida con sé stessi. In mezzo a una natura indifferente alle motivazioni egotiche, strampalate e, in qualche modo tenacemente incoscienti che li conducono in quella parte di mondo.
La lettura delle mappe, le difficoltà di percorsi che nulla fanno per lasciarsi addomesticare, l’incontro con luoghi già visti ma sempre “estranei” diventano, tra queste pagine, il tentativo di portare all’estremo la capacità di riflessione e di linguaggio di un occidente preoccupato di testimoniare una conquista più che di ammettere di essere stato conquistato.
Un libro di viaggio, certo. Ma ancor più una sorta di diario iniziatico, di resa dei conti, di necessità di rispetto per ciò che resta e deve restare differente. Anche in Paese perduto, Jourde aveva dimostrato una crudele seppur lirica consapevolezza di come i luoghi siano qualcosa rispetto ai quali l’approccio non può essere solo spaziale e geografico. I luoghi possono essere raccontati e vissuti solo come specchio di ciò che siamo. Sono lì non per farsi vedere e nemmeno per diventare immagine, ma per dirci cosa siamo disposti a mettere in gioco.
Si può dire che la scrittura di Pierre Jourde sia un continuo andare e venire tra dentro e fuori. Un andare e venire che, inevitabilmente, racconta di lui più che di ciò che vede. E questo perché la sua scrittura odeporica dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, come lo sguardo non sia mai neutro e porti con sé, altrettanto inevitabilmente, una deriva etica. Quando scrive: “Lo sfondo scompare, con i suoi residui di macchie brune e verdastre, le sue profondità e le sue altitudini, per lasciare che si dispieghi un caleidoscopio bianco e freddo. Ancora un po’ e non resterà che bianco. Un bianco che sostituirà il tempo, lo spazio, il movimento, il pensiero stesso. […] Un’idea di bianco che regna in modo assoluto su di noi, suscitando ricordi bianchi, progetti bianchi” appare evidente come la “fotografia” di una situazione fisico-geografica-ambientale sia la porta di ingresso a una riflessione quasi metafisica.
In Il Tibet in tre semplici passi vi è anche quella pervicace e illusoria superiorità del corpo, del corpo occidentale, che crede di sapersi orientare grazie all’idea che si è fatto di limiti e difficoltà. Ma che, puntualmente, si trova a dover fare i conti con una dimensione che non è solo corporale. Lo raccontano molto bene le pagine meravigliose e crude del passaggio in India, in particolare queste righe: “Ci succede di incontrare un relitto di strada. Di quelli rimasti lì ai tempi della loro giovinezza, curiosi di altri mondi come all’epoca del romanticismo. […] è a piedi nudi nella polvere. Magro come non è possibile essere, ma come riescono però a essere, in India, i più poveri tra i poveri.”
Che libro è dunque questo Il Tibet in tre semplici passi? Libro di viaggio, certo, ma in cui il viaggio è solo un pretesto, avventuroso, esotico, talvolta ipocrita, per interrogarsi o per evitare di farlo. Un libro di cui, grazie alla bella traduzione di Silvia Turato, apprezziamo anche la scrittura di Jourde, sempre in bilico tra crudeltà e umorismo.
Libro di viaggio
Prehistorica Editore
2020
153 p., brossura