Ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato
Di Geraldine Meyer
“Ma di’ soltanto una parola ed io sarò salvato”. Non è così insolito, forse, che alla conclusione della lettura di questo libro, siano queste le parole che si mettono a girare per la testa. Una salvezza che arriva, o può arrivare, da una parola detta, da una parola ascoltata. Tutto chiede salvezza, l’ultimo libro di Daniele Mencarelli appare come una preghiera laica, una elegia alla poesia. Sia quella letteraria sia quella che, ricordando l’etimologia della parola, la trasforma in un fare che salva.
Non a caso c’è un libro dello stesso Mencarelli, la raccolta poetica Tempo circolare che, appunto in poesia, ci appare quasi come una sorta di anticipazione di questo Tutto chiede salvezza. Anche qui, infatti, ritornano alcuni personaggi, o fantasmi, già delineati nei suoi versi.
Se davvero, come ci ricorda un principio fisico, è impossibile, per un osservatore, non influenzare il fenomeno stesso che va osservando, allora Mencarelli, narrativamente, ribalta la fisica. Perché queste pagine sono tra quelle più lucide e chirurgiche, sulla malattia mentale, che si possa pensare di leggere. Osservate, raccontate, cantate, dall’interno. Dall’interno di una camera di ospedale in cui, Daniele, è rinchiuso per un TSO. Quando una maledetta sera, un attacco di rabbia, porta quasi suo padre alla morte.
Mencarelli, proprio come un poeta, fa. Cosa? Dona parole al disagio, suo e a quello dei suoi cinque compagni di stanza. Lo fa quasi munendosi di una telecamera con cui, piano piano, da sé stesso il campo si allarga agli altri uomini. Ciascuno con una sua ferita, invisibile sulla pelle ma, proprio per questo, ancora più sfregiante. Dal ragazzo catatonico, a quello che non si rassegna a non poter essere la donna che sente di essere, al saggio e apparentemente mite insegnante, al gigante che non smette di soffrire per non aver potuto vedere il cadavere di sua madre (una parola non ascoltata, una parola negata) a quello che comunica solo con una preghiera che ne varrà il soprannome di Madonnina.
Tutti loro, dal recinto fisico della camera d’ospedale, escono dalla pagina con tutta la complessità della vita che, troppo spesso, la medicina dimentica. Nel tentativo di guarire. Ma guarire, purtroppo, non sempre vuol dire prendersi cura.
Pagine di scrittura pulita, capace di infilarsi nei meandri più complicati per uscirne con tutte le contraddizioni di cui è fatta la vita. E di cui è fatta, soprattutto, la vita di chi non riesce a non soffrire, a non vedere l’abisso e le vette. Daniele e i suoi cinque compagni di vita, seppure solo per la settimana del ricovero, sono lì a dirci che c’è un disordine vitale che sfugge a qualunque calendario (i sette canonici giorni di un TSO) a qualunque schematizzazione, a qualunque chimica.
La poesia in prosa di Mencarelli ci parla di dolore. Eppure. Eppure sembra anche costringerci a vedere vita e umanità tanto più la dove questa umanità e questa vita vengono tratta, più che ascoltate. “Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è vivo”. Non a caso l’autore mette queste parole in bocca a Mario, il saggio appunto, l’uomo che mangia solo mele cotte e passa le giornate guardando un uccellino che ha fatto il nido sull’albero davanti alla finestra della stanza. Non a caso perché è proprio la saggezza che, come da tanta letteratura, vive mescolata alla follia dello sguardo. Consapevole.
Tutto chiede salvezza è un libro di domande, anche non poste, non esplicitate. Che, proprio per questo, diventano interrogativi striscianti, inevitabili. Sulla malattia mentale, certo, ma anche sulle risposte (sbagliate) che ad essa si vuole opporre. Per paura. Per tentare di mettere ordine. Per non accettare che qualcosa sfugga. Sempre. E fuggendo si possa ferire. Chiedendo, appunto, solo salvezza.
Letteratura
Mondadori
2020
193 p., rilegato