Antonio Di Gennaro intervista Paolo Scardanelli, autore di L’ccordo. Era l’estate del 1979
Di Antonio Di Gennaro
L’accordo. Era l’estate del 1979 è il racconto di un’intera generazione, alla fine degli anni Settanta. Si intrecciano in questo romanzo, come avviene nel film La meglio gioventù, esperienze familiari e autobiografiche in relazione alle vicende storiche italiane. La storia costituisce lo scenario entro cui si svolge l’esistenza di due giovani amici: Paolo e Andrea. Entrambi, attivisti politici di sinistra, nutrono sogni, speranze e illusioni. Qual è l’Italia che essi immaginano e che cercano di costruire?
Un paese liberato dal peso della triade Chiesa, Stato, Famiglia. Confidando nel fatto che un mondo più libero possa produrre uomini e donne più liberi e consapevoli, ontologicamente differenti. Ma essi sanno che si tratta di proiezioni, di illusioni, ché nessun movimento collettivo può instaurare davvero un mondo più libero. Solo in noi individualmente esso può fondarsi e nutrirsi. L’uomo nuovo è quindi un’utopia destinata a svanire alle prime luci dell’alba.
Nel tuo romanzo non mancano riflessioni di carattere filosofico sui grandi temi della vita: il senso, la memoria, l’arte, l’amore, il dolore. Nella prima parte scrivi: “Dovrebbero insegnarci il mestiere di vivere, non il mestiere di lavorare…”. E qualche pagina dopo: “Dacché la vita è solo un dannato tentativo di sintonizzarsi sulla stazione giusta. E non sempre riesce. O il segnale scompare”. Perché Paolo e Andrea vivono la vita (da un punto di vista personale) come un “mestiere” faticoso? Inoltre, questa “fatica” si estende all’intera loro generazione. In tal senso, sostiene Andrea: “La nostra è una generazione del cazzo, votata allo sbando, al fallimento, a sparire siamo destinati…”.
Credo che la fatica del mestiere di vivere sia insita nella vita stessa; ogni generazione e ogni periodo storico hanno poi i loro orizzonti all’interno dei quali iscrivono il malessere che la vita trascina con sé. Penso al Romanticismo tedesco o alle Avanguardie del Novecento, a Schumann come a Baudelaire, come ai surrealisti: l’arte vera, autentica, su questo malessere vitale fonda l’assoluto che cerca di narrare. Nel caso dei nostri due eroi, come nella molteplicità degli esseri umani, questa malattia mortale che è la vita, si biforca: per Andrea essa diventa impotenza e rassegnazione, sino a sfociare in un gesto assoluto e nullificante a un tempo, mentre in Paolo la fatica di vivere viene sublimata in idealità, attraverso una spinta necessaria a rompere le spire mortali che ci avviluppano e trovare nel cielo stellato la propria iscrizione. Ciò non toglie il pondus che essa vita trascina con sé: vivere è un mestiere difficile che dobbiamo affrontare al meglio per non esserne travolti e schiacciati. Io sto dalla parte di Paolo. Andrea in qualche misura è vittima della fatica di vivere (ma non lo siamo poi tutti?) mentre Paolo cerca di farla diventare consapevolezza a partire dalla quale inscriversi nel cerchio dell’assoluto.
La vita di Andrea oscilla tra la passione per l’Etna e l’amore per Anna. Sono il suo modo per sfuggire alla presenza ingombrante di un padre borghese, “dispotico”, che lo vorrebbe inquadrato nell’azienda di famiglia e che invece gli tarpa le ali. Tu scrivi: “Alla fine la vita è come la guerra: bisogna trovare una tattica di sopravvivenza, dal momento che la vittoria è provvisoria”. L’amore svolge questo ruolo?
Questo punto in qualche modo si collega a quello precedente: la fatica di vivere cerca consolazioni, l’amore ne è una delle più potenti. Sì, l’amore svolge questo ruolo: una tattica di sopravvivenza; ma anche qui la vittoria è provvisoria. La domanda mi sollecita riflessioni sul senso salvifico dell’amore, di come esso, quando autentico e profondo, possa proiettarci lontano dalla permanenza del dolore, donandoci requie, sia pure provvisoria. Questo è Anna per Andrea: una tattica di sopravvivenza. Che però l’avviluppa sempre più in un sentire che profuma di paradiso ma che ha tutti i tratti dell’inferno. Egli incarna perfettamente l’eroe dannato moderno, quello che non sa spezzare il cerchio e trovare la via per il cielo; rimane un personaggio di terra cui Anna e l’Etna danno (false) speranze e requie.
Nelle ultimissime pagine del tuo romanzo affermi: “Considero Alla ricerca del tempo perduto uno dei maggiori romanzi di sempre”. Quanto ha influito l’opera di Proust nella tua visione della scrittura?
Molto. L’incedere di Proust attraverso l’etere dell’umano sentire e agire è per me una sorta di scacco matto alla morte: questa per me la Recherche nella sua quintessenziale essenza e, credo, anche per Proust. Il tentativo di eternarsi malgré soi: questo il messaggio profondo, quasi salvifico che mi giunge da Marcel Proust e che, non certo a livello stilistico, quanto metodologico e di pensiero faccio mio e influisce nel mio scrivere. E che consente a Paolo di “passare a nuttata”. Diverso il destino di Andrea. Alla fine si tratta sempre di destini, e Proust è maestro nell’affissarli sull’asse del tempo che ci costituisce.
L’ACCORDO. Era l’estate del 1979″
Paolo Scardanelli
Carbonio Editore
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