Arianna o di un filo di continuità
Di Vladimir D’Amora
E sempre poterli salutare, gli orrori di gente che scrive poesie. E bella e miserabile. E brutta e pensata. Senza più i nomi stupendi, i saggianti il peso della discendenza, non più sul mondo della terra chiusa, tutti a fare termine nell’approssimazione. E non più nelle strade, colle e città dipinte nella solitudine, senza una pianta ricamata nel terreno non più sotto le stelle libere nel non libero. Sembrano loro ripari, l’estate e il suo continuo, troppo refrigerati, troppo parlati. Nietzsche non più quasi pescasse gl’umani dei piaceri mobili, gli piaceva l’ombra del fraintendimento che si giocasse la facile perdenza: annusare, tagliare bestie rinvigorite dalla storia di uno scaffale che si levava dagli scaffali: denunciare questo lavoro male compensato, strillato: il pianto negl’interstizi delle serate disumane: non si piacciono più, i miei simili nati come me, sbarcati, denudati dell’immagine insensata: fuori, sono più poveri di me. E lo so io, che sono anche poveri.
Quando le bombe dell’idealismo costituito a macchina da guerra stabile nelle scissioni d’epoca, si montarono gli schermi. Caddero sui lastricati insonni le specie che ancora travagliavano. Ci dissero di non andare ciechi sulla strada: nessuno avrebbe risposta, erano ancora lividi e malsani, i padroni. Ancora gli spericolati urli di un civilizzato serbatoio di pose e di estasi. Fragori edificati ancora per poco, e faceva caldo, nel caldo che ancora al quartiere spettavano pasti caldi, ai negri. Ancora tepori incastonati nel bollore a orario, e la stella era l’intero cinema, chi lo amava, amava sempre e solo l’immagine, mentre diceva che ancora la storia faceva l’immagine. Ma costui lo diceva, ciò, tanto per dirlo.
Le storie, il loro, dolce, discosto sapore.
Poi crebbero i laboratori dei bambini, poi seppero l’operazione della disonestà girovaga a maciullare stati e traduzioni. E caddero poi le loro tiepide illusioni, s’ebbe un fratello poi nella dominazione delle menti labili e di quelle fragorose, che ricamava curve con i piedi, ma era un ornamento di sé sempre francese e spiattellato nella melma del diamante, l’intera melma poi di un potere soffocato, ripiegato spesso dai suoi stessi denti di latta. E poi sarebbe stato un dispositivo stracciato, poi non si lavorerà più per fare figli. Ma per allenarli, a essere figli. Padri di figli.
Mentre tanto finì alle spinte, a gl’imbambolati mediocrati pusillanimi lontani, come generati anche, dalle strade accese dalle frotte di gracidanti frame di vita: frame: vita. Mentre la miseria, quella contorsione del prestito ufficiale, era un prolungamento del mandato, i tradimenti privati, le speculazioni manipolate fino al culo d’acciaio. Mentre Parigi bruciava, Vladivostok impazzì di giorni periferici e fissati dalla notte, una provincia della merce, un esempio della vita. Ch’era recente, e la droga, le donne imbalsamate, la indipendenza d’una carne giovane e strafatta, il bere nelle carceri vecchissime, dalle patate il bere. La non cultura riciclata, mentre gl’esclusi lasciavano le postazioni accorte, per via di dio. Un altro.
E quei bisogni chiusi dentro ai ghetti della giornata o era folle, il lottare senza una chimera?
Acconcia fine di questa notte senza temperatura stabile, fine di un accattonaggio strepitoso, e chiamalo tradizione.
Fine di strade, misericordia, polvere, parole precipitose e altisonante depressione rematica, cioè delle parole deprivate di suono e di incisione.
I nostri occhi incollati alla fine, divieti della fine, e bello sarà il mondo sui viali cementati dalla pazzia di un piazza imprestata al calcolo di ieri e di una fine profonda, concordata come cisti, sui ponti di una Torino impazzita lei, e non Nietzsche, Lou come una industria di grasse parole e di braccia importate, la fine sarà la sua bestia dal musetto pulito,la sua faccia. Alla fine sterilizzata maggioranza di coglioni, uomini di fonti filologicamente testate, le storie di chiesa, storie della croce. Questi uomini che lo soccorsero, a Torino. Che non ci saranno, per noi.
Alla fine torneranno gli edifici alla linda polizia, alla sicurezza assicurata, a dei manifesti tentacoli alla mattina quando, in una fine, i gradi del cielo saranno giostre per non vedere la fine di nessuna carne. Di nessuna storia.
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In copertina Vladimir D’Amora (PH Luigia Sorrentino)