Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

L’olmo grande. Bruciare il ricordo per far vivere la memoria

Di Geraldine Meyer

In quanti modi si può leggere un libro come L’olmo grande di Gian Mario Villalta? Quale, tra i suoi numerosi sentieri, possiamo scegliere di seguire? Molti. E viene da dire per fortuna di chi legge. Perché questo testo è una notevole prova di scrittura ma, forse ancor più, una interessante sfida ai limiti della letteratura e della memoria.

L’olmo grande fa parte di un interessante progetto editoriale della casa editrice Aboca che ha invitato alcuni scrittori di “raccontare il mondo, il loro e il nostro, proprio a partire da un albero.” Come scrive l’editore stesso presentando la collana Il bosco degli scrittori.

Ed è quello che fa Villalta con queste pagine. In cui il racconto familiare e quello di un Friuli in bilico, negli anni ’70, tra un mondo che andava sparendo e quello che stava arrivando, diventano l’occasione per riflettere su memoria, ricordo, letteratura e invenzione. Dove la parola invenzione scivola lentamente, ma non per questo in modo meno rutilante, nell’inevitabile arbitrio che chi scrive si prende. Quale? In questo caso, per esempio, ricordare o pensare di ricordare il fuoco che distrusse questo olmo. Confine tra due proprietà ma anche sentinella, testimone e custode di due modi di vivere e guardare cose e paesaggi.

Ma non si pensi all’arcadica elegia di un mondo che fu. L’olmo grande non deraglia in un panfrancescanesimo di facciata, in un nostalgico recupero del passato. Questo libro ci conduce nei territori, un po’ rischiosi in verità, del vivere un presente facendo in modo che la memoria sia un proseguire. A differenza delle zavorre spesso rappresentate dal ricordo.

Le pagine, le parole, come scrive lo stesso Villalta, sono come le foglie di un albero. Le cui radici sono ciò che non vediamo ma che dicono più di ciò che appare. Un po’ come la vita. E, un po’ come la vita, a volte accade che sia lo sradicamento a mettere in luce, e a fuoco, proprio il nucleo dell’appartenenza. Come il passaggio dall’infanzia all’età adulta, come il passaggio dalla civiltà contadina a quella del capitalismo dell’agricoltura intensiva. “Spesso la vita preferisce non sciogliere le contraddizioni, ma le nutre e le trascina con sé: così per me l’abbandono dell’infanzia, le prime esperienze dell’adolescenza con il confronto della scoperta e della violenza della novità, si specchiano nella perdita del paesaggio dei primi anni e nell’impatto forte dell’ultimo e definitivo strappo che cancellava il mondo contadino.” Eppure. Eppure è proprio la perdita, non il perduto, che consente di proseguire cercando un modo per farlo.

Che è anche un modo per arrivare a parlare di verità (anche quella della letteratura che, chissà, se può dire il vero). E qui Villalta entra in alcune delle considerazioni più interessanti del libro, quelle appunto del rapporto tra radice e verità: “Ecco che l’invisibile radice della pianta si lega con forza a questo concetto di verità. E da questa radice di verità all’aggettivo (e poi sostantivo) radicale il passo è breve. Ci si dimentica che per guardare le radici, per essere davvero radicali, esponendo la verità […] si deve strappare la pianta dal suolo.”

Come e quando lo stesso Villalta si è dovuto sradicare per raccontare dell’olmo, con tutto ciò che esso ha rappresentato per lui? Come e quanto ha dovuto “mentire” a sé stesso, con il ricordo, per poter trovare le parole per raccontare dell’olmo stesso e delle epopee familiari ad esso legate?  Perché, come scrive: “L’olmo mi chiedeva di guardarlo per questo? Perché cominciassi a capire che per ogni conoscenza acquisita, ogni volta che viene scoperta una verità è necessario mettere in conto una perdita?”

Villalta però, e questo è il cuore del libro, non resta impantanato nel vischioso e impossibile recupero del passato, quanto semmai, si interroga ( e noi con lui) sulla possibilità di rendere fertile questo passato, anche dal punto di vista della letteratura: “Ma io continuo a scrivere per dipanare la mia memoria, legata alla storia di un solo olmo. Non mi inquieta l’ipotesi di possedere un falso ricordo. So che succede. Mi chiedo invece se sia possibile liberare la memoria, nella sua vastità indomabile, dalla schiavitù del ricordo e far sì che apra al presente una dimensione del passato più ampia, più ricca e fertile. Sarebbe anche una visione più ampia, ricca e fertile del presente.”

Ecco, come se l’olmo fosse, in qualche modo, la letteratura stessa.

l'olmo grande Book Cover l'olmo grande
Gian Mario Villalta
Narrativa, letteratura, memoire
Aboca
2019
223 p., brossura