Il libro della creazione e il desiderio femminile
Di Geraldine Meyer
Il Golem, è una parola le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Questa parola appare per la prima volta nel Salmo 139, 16 della Bibbia, indicando una massa priva di forma. Nella leggenda si narra che a dare vita al Golem sia il nome di Dio o alcune lettere (in principio era la parola, lo ricordiamo tutti) che vengono impresse sulla sua fronte o scritte su un foglietto infilato sotto la sua lingua. Una scrittura biblica e una leggenda ebraica che ci conduce nei territori della sfida a Dio, nel tentativo di impossessarsi della sua forza creatrice. Con la punizione che, inevitabilmente, ne consegue.
Il Libro della creazione, o Sefer Yetzirah, forse il più importante dell’esoterismo ebraico, conduce attraverso speculazioni teologiche nell’ambito della creazione del mondo da parte di Dio con l’emanazione dello Sefiroth, strumenti di Dio stesso.
Sarah Blau, nel suo interessantissimo Il libro della creazione, recentemente pubblicato da Carbonio Editore, costruisce un’opera letteraria che, con una scrittura visionaria, a tratti sincopata, spesso simile a un fiume incapace di restare tra gli argini, ci porta nel pieno di una cultura, con tutte le sue contraddizioni e, ancor più, con tutti i conflitti psichici che essa conduce con sé.
La storia è quella di Telma, giovane donna appartenente ad una famiglia ebrea di stretta osservanza. Telma non si piace, Telma odia il suo corpo. Lo sappiamo da subito mentre siamo con lei, chiusa in bagno a guardarsi allo specchio, e dire: “Lo specchio non è generoso.” E non è un caso che questa immagine apra il libro perché la questione dello specchio e della specularità è centrale in tutto il testo. Telma è sola, soffocata in una famiglia in cui regole antiche e atavici riti fanno da coreografia e da guardiani. Dopo il funerale della amatissima nonna, eroina della rivolta del Ghetto di Varsavia, Telma avverte che qualcosa deve cambiare. Con la terra del cimitero impasterà, evocandolo appunto, un golem. Un uomo misterioso, un amante creato dal suo desiderio, una figura che le darà una nuova vitalità. Ma a che prezzo? Al prezzo della perdita o del dolore dei suo familiari. Il desiderio femminile, sembra dirci, porta con sè una punizione. E l’autrice, in realtà, neanche tanto velatamente, pone questo come domanda più che come affermazione.
C’è tanto, davvero tanto in questo libro. Elementi letterari, religiosi, psicoanalitici, leggendari. Tutti concentrati in questa figura di donna che osa desiderare, al punto tale da essere quasi distrutta dal suo desiderio. Al punto tale da negare la sua stessa alterità costruendo un uomo che non è e non può essere l’Altro e per il quale, dunque, nemmeno lei è Altro. Specchio, appunto. Che ubbidisce privo di volontà, che riflette ciò che si vede, ciò che non vogliamo vedere ma anche ciò che non si vede.
Il libro della creazione è, certo, un libro che prova a mettere in discussione i canoni religiosi e cosmogonici d’Israele, con le pietre fondanti di Dio e famiglia, del ruolo della donna e delle tradizioni. Ma è anche, e forse soprattutto, un libro che racconta una nevrosi. Il crearsi un mondo in cui al soffio vitale delle parole si sostituisce la violenza del passaggio all’atto. Fosse pure quello dell’immaginifico creare una fantasia obbediente e, infondo, prigioniera anch’essa.
Non è un libro facile questo Il libro della creazione. E non lo è non perché la lettura sia ostica, anzi. Quanto semmai per la violenza con cui racconta un disagio, che è quello di una donna ma anche quello di un intero mondo. Per la violenza con cui scaglia una domanda: Che cos’è l’amore? E per la semplicità con cui risponde dicendo: “L’amore è un riflesso del sé. Telma si osserva dentro gli occhi di terra del suo golem.” Ancora la violenza dello specchio, ancora la difficile e complessa relazione tra sé e Altro. Da cui cominciano i tentativi di fingersi creatori e le perdite che restano su questo campo di battaglia.
Perdite inevitabili se, come dice Telma: “Non hai bisogno di un corpo fisico d’amare, hai bisogno soltanto della sua presenza dentro la tua testa.” Il centro del libro è questo. Ed è un centro di estrema disperazione. Un libro che ci viene da definire quasi lacaniano, in cui l’autrice ha raccontato l’inconscio, ricordandoci ciò che Lacan stesso affermava e cioè che l’inconscio lavora come un linguaggio. Quello di Telma è un linguaggio che pensa di dare vita e invece la toglie. Ma non per crudeltà quanto, semmai, perché è una vita tutta mentale, senza la parola e senza, appunto, alterità. Un mondo che, quando Telma la parola prova a trovarla, per dire il suo desiderio, cade a pezzi.
Un libro davvero complesso che non si accontenta di essere sfogliato. Ma che chiede, quasi impone, di entrare in un labirinto. Anche per la scrittura utilizzata e il continuo scambio tra la seconda persona plurale, la prima e la terza. Proprio come in un gioco di specchi, di riferimenti e di concetti incendiari.
Romanzo
Carbonio Editore
279 p., brossura