Il posto delle cose
Di Gennaro Lento
La scena è questa.
Un vecchio camion militare pieno di soldati tedeschi sta attraversando la pianura a velocità sostenuta. Percorrono una vecchia strada sterrata fatta di polvere e sassi e vanno così veloci che le ruote del camion alzano una colonna di polvere grigia e marrone che si vede da lontano e a occhio nudo. In altre occasioni sarebbero stati più prudenti, ma quello non è il momento di essere prudenti. È il momento di correre. Il comando ha lanciato l’ordine di abbandonare immediatamente le postazioni e di raggiungere il confine con l’Austria entro le quarantotto ore successive. Per questo vanno veloci come il vento, lasciandosi dietro una scia di polvere, pietre e paura.
I soldati nel camion sono stanchi e sporchi, logorati dentro da una guerra che non hanno capito fino in fondo. All’inizio pensavano di sì, ma arrivati a quel punto non sono più tanto sicuri di quello che pensano. Le teste si muovono in sincrono con le vibrazioni del camion. Gli sbalzi più violenti li fanno letteralmente saltare dal sedile, dove tornano a sedersi seguendo una specie di coreografia circolare e perfetta. Nessuno parla, ognuno impigliato nelle proprie cose, alle mogli lasciate a casa a crescere figli che non conoscono. Ai figli di altri, che a causa loro non conosceranno mai i loro padri. I più giovani pensano a cosa sarà di loro, se riusciranno mai a tornare a casa, se ce la faranno a sopravvivere. Forse qualcuno prega.
Tutto accade in un attimo.
L’autista del camion è un vecchio sergente corpulento con parecchi anni di servizio sulle spalle. Per stare più comodo si è slacciato la giubba fino a metà del torace e al collo ha annodato un fazzoletto per fermare il sudore che gli scende dalla testa. Non sarebbe consentito abbigliarsi a quel modo, ma le regole sembrano ormai aver perso il loro potere ipnotico. Il sergente tiene le braccia larghe per afferrare a due mani l’enorme volante del camion ed è concentrato sulla guida in maniera assoluta. La strada non la vede neanche, piuttosto la sente e continua a percorrerla seguendo una traiettoria mentale ben definita. Ci sono solo lui, la bestia che ha sotto il culo e la velocità. Forse per questo non vede la mina che affiora dalla buca quasi per metà, piazzata di fretta da qualcuno che non ha avuto tempo di sistemarla meglio. O forse la vede solo all’ultimo momento, senza avere il tempo di schiacciare forte il pedale del freno e sterzare verso i campi alla sua destra. O forse la vede e pensa che non esista, e che sia solo un’illusione piazzata lì apposta per fargli perdere la concentrazione.
Sia come sia, la ruota anteriore destra del camion prende in pieno la mina, attiva l’innesco e avvia il processo deflagrante. La pianura è squarciata da un boato talmente forte da sentirsi a molti chilometri di distanza. L’esplosione provoca uno spostamento d’aria tale da sbalzare il camion verso l’alto come fosse una barchetta di carta. Il sergente autista e i due ufficiali seduti di fianco nella cabina di guida muoiono all’istante, letteralmente polverizzati da migliaia di schegge roventi che sventrano il fondo del camion e bruciano metallo, sedili, vestiti, carne e ossa. Nel cassone posteriore i soldati non hanno neanche il tempo di rendersi conto dell’esplosione. I più vicini alla sponda posteriore sono sparati fuori a una velocità impressionante e quando arrivano a terra l’impatto è così violento da frantumargli le ossa come grissini. Restano esanimi a terra, in composizioni disarticolate simili a marionette prive di guida. Il resto della compagnia atterra molti metri più in avanti insieme al camion, che nel frattempo ha compiuto una piroetta verso l’alto prima di ripiombare pesantemente sulla strada in un clangore assordante di metallo violentato. Appena l’ultima eco della capriola si dissolve nel cielo di primavera, un silenzio irreale sigilla la scena, conferendole una plasticità quasi classica.
Lei vede tutto. Quando il camion salta per aria sta cercando erbe selvatiche per la minestra sulla collina sovrastante la strada. Non c’è uno che non le abbia sconsigliato di avventurarsi per quelle strade, diventate pericolose a causa delle centinaia di soldati tedeschi in rotta verso nord. Lei ha appena compiuto quattordici anni, è poco più di una bambina ma è cresciuta in fretta ed ha la testa dura come la pietra. Quelle sono le sue strade e nessuno riesce a tenerla in casa. Così quel pomeriggio di primavera è sulla collina, con il canestro intrecciato in mano e il fazzoletto ben annodato sotto il mento. E vede tutto. Vede la colonna di fumo avvicinarsi da lontano, come fosse un treno lungo i binari. Vede il camion pieno di soldati tedeschi passare a qualche decina di metri sotto di sé. Vede la mina esplodere e il camion impennarsi come un cavallino imbizzarrito. Vede i soldati volare fuori dal retro e spiaccicarsi a terra come zucche mature. Vede infine il mostro atterrare e contorcersi in terra come cosa viva. Ha visto tutto ma non sente più nulla, l’esplosione gli ha procurato uno shock che le impedisce di percepire i suoni. Mentre sul mondo cala un ronzio sordo, per un attimo si chiede se sia accaduto davvero o se piuttosto, per qualche motivo, non abbia immaginato tutto. Ma il camion capovolto è davanti a lei e il puzzo dell’esplosivo le invade le narici. Prima di tornare a sentire con le orecchie, sente con il cuore. Vede braccia agitarsi e corpi torcersi nella polvere e fa l’unica cosa che non dovrebbe fare. Si precipita verso la strada per aiutare chi chiede aiuto. All’inizio non riesce a capire cos’è vivo e cos’è morto in quel groviglio di corpi mischiati alla rinfusa. È scalza e cammina in punta di piedi, quasi temendo di poter far del male a qualcuno. Alla fine i suoi occhi si fissano in quelli di un uomo disteso supino con le braccia larghe. Il suo volto è coperto di sangue, solo il bianco degli occhi buca quel rosso osceno e il celeste chiaro della pupilla la guarda implorante. Helfen, le dice in un sussurro, Helfen. Aiuto. Lei non capisce quella parola ma si china su di lui e lo guarda con tenerezza. Si ricorda di suo fratello Alberto, che la guardava allo stesso modo prima di morire stroncato da un cancro allo stomaco, ridotto a un mucchietto di pelle, ossa e occhi. Non sa che fare, gli prende la mano ricoperta di polvere e la stringe forte, mentre con l’altra tira fuori il fazzoletto dalla tasca del grembiule e cerca di ripulirgli come può la faccia dal sangue. Helfen, lo sente ancora mugolare. Certo, helfen, helfen, stai tranquillo, gli dice piano, andrà tutto bene, non ti preoccupare, Alberto. Lo chiama come il fratello, le viene spontaneo. A sentire la sua voce, il soldato smette di tremare, sono bastate quelle parole incomprensibili a calmarlo. Con una mano si fruga nella tasca della camicia e ne tira fuori un mazzetto di carte luride tenute insieme con lo spago. Sembrano lettere. Le porge a quella ragazzina minuta spuntata fuori dal nulla e che pare essere lì proprio per quel motivo. Nehmen sie, le dice, prendile, nehmen sie, bitte, per favore. Lei prende le lettere e cerca dentro di sé tutto il coraggio di cui è capace per rassicurare quello sconosciuto che gli sta morendo davanti. Afferra la borraccia d’acqua dentro il cesto e gli solleva il capo per permettergli di bere. Gli tremano le braccia per lo sforzo e l’agitazione. Il soldato avvicina le labbra alla borraccia ma non beve. Sgrana gli occhi e guarda davanti a sé. Quando riporta gli occhi su di lei pare essere tornato direttamente dall’inferno.
– Wo sind meine Beine? – dice con la voce impastata di sangue, – Wo sind meine Beine? – ripete a voce alta. – WO SIND MEINE BEINE? – urla.
Lei non capisce subito, cerca di tenergli il capo sollevato meglio che può, continua a spingere la borraccia verso quella bocca che grida. Poi segue lo sguardo del soldato e sbianca. Non ha le gambe. Da metà coscia in giù non c’è più niente. Vuoto. D’istinto si porta le mani alla bocca, lasciando che la testa del soldato batta per terra. Gli viene da vomitare, forse sta per svenire. Ma tiene duro, è una ragazza forte e non ha paura di niente. Respira, respira, respira. Intanto il soldato tedesco piange e ripete come una litania quella frase, mentre con le mani vaga nel punto in cui avrebbero dovuto esserci le sue gambe. Wo sind meine Beine? Dove sono le mie gambe?
Lei non sopporta più quel grido roco che le sfregia il cervello. Deve fare qualcosa. Lascia il soldato tedesco in terra e inizia a guardarsi intorno. Con le mani a visiera per proteggersi dalla luce del sole, fruga con lo sguardo in mezzo a quel groviglio disumano di corpi mischiati. Finalmente le pare di vedere qualcosa. Si avvicina cauta. Si china per terra e raccoglie quello che sta cercando. Fa per voltarsi e tornare indietro quando sente un rumore tra gli arbusti della collina. Alza gli occhi e li vede scendere dalla scarpata, veloci e silenziosi come ragni neri. Sono almeno in dieci. Si avvicinano agli uomini distesi a terra, pungolandoli con la canna dei fucili per verificare se siano vivi o morti. Uno dei soldati alza un braccio e subito una fucilata lo colpisce in pieno petto, lasciandolo con gli occhi spalancati sul cielo azzurro. Lei non capisce perché quegli uomini sparino ai morti, le sembra una cattiveria inutile. A un tratto vede uno dei ragni rovistare con ferocia nei corpi a terra e si rende conto che si è avvicinato al soldato senza gambe. Urla.
– Fermati! – e poi, ancora più forte – Fermati!
Quando si gira il partigiano vede una scena che non dimenticherà per tutto il resto della sua vita. Una ragazzina minuta e a piedi nudi in mezzo a pezzi di uomini. Una ragazzina minuta che porta sottobraccio due gambe di soldato tedesco. Rimane impietrito, non è neanche sicuro che quella scena stia realmente avvenendo davanti ai suoi occhi. Qualcosa in lui si ferma. Neanche alza il fucile da quella faccia sporca di sangue, mentre continua a guardare affascinato verso di lei. Gli sembra uno di quei fiori dal gambo sottilissimo che crescono selvaggi in mezzo alle rocce. In quel momento sente scorrere in mezzo agli occhi la stanchezza smisurata dei giorni passati a nascondersi tra le montagne, in attesa del momento in cui poter finalmente togliersi di dosso quei vestiti sudici e quella paura infinita. Il fiore gli si avvicina e lo guarda fisso negli occhi. Uno sguardo ostinato che lo costringe a indietreggiare di qualche passo. Poi si gira e abbassa gli occhi ma il soldato tedesco non c’è più, perso da qualche parte nell’azzurro limpido del cielo.
Ecco, la scena era pressappoco questa.
Dopo quel giorno avvennero molte cose. La guerra finì e la vita ricominciò a scorrere cercandosi una via in mezzo alle macerie. Lei tornò a casa sua, non lontano da quella pianura, ma le era rimasto qualcosa dentro che non saliva e non scendeva. Restava sveglia la notte per domare gli incubi. C’erano troppi ricordi affastellati nella sua mente, accatastati gli uni sugli altri come casse in un magazzino abbandonato. Capì che aveva bisogno di dimenticare e che per farlo era prima necessario rimettere ordine. Prese a vagare senza sosta tra le rovine dei paesi vicini, in mezzo alle baracche improvvisate di coloro che erano riusciti a conservare la propria vita e poco altro. A tutti offriva il suo aiuto. Cucinava, lavava, accudiva vecchi e bambini, per poi tornarsene a casa la sera così stanca da non riuscire neanche a mangiare un boccone. Nonostante tutto, più passava il tempo più sentiva che la strada era quella giusta e la mattina dopo ricominciava tutto daccapo. In quei giorni le ritornava spesso in mente sua nonna, di quando raccoglieva i fazzoletti stesi ad asciugare e si metteva seduta davanti al fuoco a lisciarli sul grembo per ore, fino a che perdevano tutte le grinze del bucato. Solo quando erano perfettamente ripiegati andava a riporli nella grande cassettiera in camera da letto, quella dove c’erano sopra tutte le foto dei morti di famiglia. L’aveva sempre affascinata quella pratica, come se seguisse una specie di liturgia e dopo le rimaneva sempre un sentimento di tranquillità, di cose rimesse a posto. Ci ripensava adesso perché allo stesso modo lei stava lisciando pazientemente le cose della sua vita sforzandosi di eliminare dai ricordi ogni piega, in modo da poterli infine conservare nel posto che gli spettava e andare avanti a fare altro.
Passarono gli anni, si sposò ed ebbe dei figli che divennero grandi a loro volta. Si sarebbe potuto dire che era arrivata in un punto della sua vita nella quale era in pace con se stessa, se non fosse stato per quella faccenda della pianura. In tutto quel tempo, infatti, l’unica cosa che non era riuscita a togliersi dalla testa erano gli occhi del soldato tedesco che la fissava smarrito in mezzo al rosso del sangue. Più volte aveva guardato quelle lettere colme di segni incomprensibili, scritte con una grafia incerta e spigolosa. Cercava di immaginarne il significato seguendo le curve e gli angoli come fosse una mappa.
Un giorno venne a sapere che in paese era arrivato un nuovo dottore e che probabilmente conosceva il tedesco, dato che era stato di stanza al fronte come ufficiale medico. A sentire quella notizia un brivido di eccitazione le attraversò la schiena. Senza perdere tempo, la mattina dopo si recò all’ambulatorio e prima ancora di presentarsi mise le lettere in mano al dottore. Me le traduca, dottore, la prego, gli disse soltanto. L’uomo la guardò stupito, poi spiegò per bene le pagine gualcite e dopo aver inforcato gli occhiali prese a decifrare a voce alta. Liebe Schwester, cara sorella, cominciavano tutte così e parlavano dell’orrore e della paura che coglie chi si trova a essere in mezzo al buio e cerca un appiglio che lo porti via. Mentre il dottore andava avanti, lei ritornava indietro a quel pomeriggio sulla pianura e alla muta preghiera negli occhi del soldato quando le aveva consegnato le lettere. Nehmen sie, bitte, prendile per favore. Sul dorso recavano tutte lo stesso nome e lo stesso indirizzo.
Bisogna che parta, disse a suo marito la sera stessa, devo mettere a posto una cosa e devo farlo adesso, aggiunse come unica giustificazione. L’uomo non chiese niente, era abituato a quello sguardo e nessuna spiegazione avrebbe cambiato la situazione. Fecero la valigia e dopo due giorni erano già sul treno che li portava in Germania.
Quando scesero alla stazione di Wiesbaden ci misero un po’ prima di riuscire a orientarsi e trovare un mezzo che li portasse a destinazione. Arrivati all’indirizzo indicato nelle lettere, lei ebbe un momento di esitazione. E se avesse cambiato casa? In fondo erano passati parecchi anni dalla fine della guerra, magari si era sposata ed era andata a vivere in un altro quartiere, o addirittura in un’altra città. Questa possibilità non l’aveva neanche sfiorata quando aveva deciso di partire. Che stupida, disse tra sé. Chiese a suo marito di aspettarla fuori e suonò al campanello.
Nessuno seppe mai cosa accadde nelle due ore successive. La donna delle lettere viveva effettivamente in quella casa ma il resto si può solo immaginare, a partire dal modo con cui comunicarono tra di loro, visto che nessuna delle due conosceva la lingua dell’altra. Lei sicuramente le mostrò le lettere, l’altra probabilmente tirò fuori da un cassetto le foto del fratello quando era ancora a casa. Si può supporre che invece di parlare facessero ampi gesti silenziosi e si guardassero negli occhi, per arrivare dove le parole non riuscivano. Magari bevvero un tè e piansero insieme. Forse prima di accomiatarsi si abbracciarono lungamente e in silenzio, oppure si strinsero semplicemente la mano. Di certo quell’incontro cambiò la loro vita per sempre. Quando uscì, disse a suo marito una sola parola. Andiamo. E fu tutto quello che si riuscì a cavargli di bocca sull’argomento.
Le restava ancora una cosa da fare. Appena tornata a casa non si cambiò neppure d’abito, lasciò le valigie sulla porta e prese la strada che portava verso la pianura. Arrivata nel punto in cui tutto era avvenuto, strizzò le palpebre e si guardò in giro, come quando si torna in un posto che abbiamo conosciuto da bambini e ci si sforza di riconoscerlo per com’era. E rivide tutto. I soldati tedeschi sparsi sul terreno, il camion capovolto, i partigiani dagli occhi bui. Nelle narici sentiva perfino l’odore acre dell’esplosivo. Infine riapparve lui, supino e con le braccia aperte a fissare il cielo azzurro. Le sorrise e lei di risposta gli soffiò un bacio sulla punta delle dita.
A guardarla da lontano, nel vento di quel pomeriggio di primavera, sembrava uno di quei fiori dal gambo sottilissimo che crescono selvaggi in mezzo alle rocce.
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