L’Amore sulle due rive del mare.
Di Mario Maiolo
Comincio con delle scuse. Mai prima d’oggi mi sono confrontato con il dialetto scritto del posto dove sono nato. Il luogo è l’area di Cirò, sul mar Jonio, in Calabria. L’ortografia e le mie non sempre precise conoscenze dell’idioma hanno condizionato questo lavoro. Se non ho chiesto aiuto a chi il dialetto lo conosce bene, la ragione è la mia lontananza.
La trascrizione delle parole dialettali è fonetica. Segnando l’accento grave sulle vocali dove nella lingua italiana questo cade su un’altra sillaba e prediligendo il “troncamento” — lo menziono in questo modo perché una gran quantità di parole dialettali perde l’ultima vocale — ho cercato di riprodurre il suono di queste parole. La regola della pronuncia vocale aperta è necessaria in tutti i lemmi.
Piccolo dizionario:
‘u, ru, ra, ‘a, i’ = articoli determinativi.
‘na, ‘nu, ‘n = articoli indeterminativi.
‘i, ‘a, à, du, aru, “’nta”, ara = di, del, da, al, “nel, in, nella”, alla.
‘un = non.
idda, iddu = lei, lui.
da’ = là
cu’ = con
L’Amore sulle due rive del mare.
‘Un aviva tciùs occhio tutta la notte. Lo scirocco, ‘u vent african — così lo chiamavano in paese — l’aviva stancata assai. ‘U jurn fatt, aviva vivut ‘u café e ‘un aviva fatt nent, ni a’ manciar e nemmen i serviz.
Il caldo insopportabile andava avanti da una settimana. Il marito, impiegato al comune di Crotone, usciva dal lavoro, scendeva dal postale alle due, andava a casa e, non trovando un piatto di pasta, preparava da mangiare per sé e per sua moglie.
— Ma ch’ tene? Mancia! ripeteva alla sua Assuntina. Mancia sinnò mor e ‘po je come fazz.
Ma Assunta aveva deciso di non mangiare più. Suo marito allora imprecava.
— E mannaia ara madonna du Carmen. ‘A capa tosta, ten.
Assunta riconosceva a se stessa questa caratteristica che i calabresi hanno come nomea nel resto d’Italia.
E ribatteva: — A capa tosta tegn. E mo’ chibbò?
‘A nott fatt, lei continuava a fare il muso. Se lui si avvicinava, Assunta si allontanava. Se lui insisteva, lei si girava dall’altra parte.
Per fortuna ‘u marito si addormentava in fretta. Mentre lei vijàva; tutt ‘a nuttat vijàva idda. Tant eran ‘i penser che l’ giravan pa’ capa, ch’ ‘u sonn ‘un l’ veniva.
Quir jurn, Assunta si preparò per andare al mare, curi ‘i tappin e ‘ra borsa.
Cirò Marina era diventata rann, e i bagni occupavano il litorale da una parte all’altra del paese. Il posto migliore per starsene tranquilla e godersi il mare, Assunta lo trovava a Punta Alice, fuori il paese, dove pure i pini marittimi contribuivano a rallegrare ‘nu pochecèdd ‘u core sò.
In quel punto il mare si divideva in due e, ‘nta capa sò, quel luogo rappresentava la sua vita. Da una parte c’era idda, tcina ‘i raggia; dall’altra il mondo, che lei non aveva mai conosciuto.
Assunta ‘un aviva scola. Ara terza media aveva concluso il suo percorso scolastico pe’ aiutar a màmmese, che quattr fìji mascul teniva e sula ‘un c’a faciva. ‘A terra tenivin ‘nta famija, e ‘nta ‘stu poco ‘i tèrra ci facivin ‘u vin. Cu chir vinu, ‘u patre faciva campar tutta ‘a famija.
‘Nu poca ara vota, ‘i frate se n’èrrene jut ‘nta Germania pe’ fatecar, e lei era rimasta sola ad accudire i vecchi genitori, che vivevano di poco, e anche con il guadagno suo.
Nel paese il lavoro era assai difficile à trovare, e ru stipendie ‘un decidiva ra legge, che c’era e ‘un c’era, ma il mercato del lavoro ‘ntu paìsi. Le paghe arrivavano a 500 euro, se tutt jiva bon. Assunta aveva lavorato anche per 300 euro otto, dieci ore al giorno. Pe’ chist ‘i politici un potiv vidir ‘nta televisioni. “Ch’ m’an parrar ‘sti quattr scem”, diciva. Mentre loro s’ ‘mbrigàvan e si lintcìven à vucca ‘i libertà e di democrazia, idda si rumpiva ra schina pe’ quattr sord. E come ‘na cantilena ripitva : “Nu Paìsi che non fa campare i cristian, ‘un è ‘nu Paìsi”.
Ara television parlavano di piccole cose e trascuravano i grandi problemi. Assunta ‘un capiva pichì. Allora cambiava canale o l’astutava ‘a television, ‘che era meje.
Per questo Assunta aveva smesso di credere in San Cataldo, che nel paese tutti veneravano. E se la morte fosse arrivata quel giorno, lei non avrebbe protetto se stessa nemmeno con un dito. Si sarebbe lasciata trasportare ‘nta l’atre munn, che sicuramente era più bello del suo.
Sguazzare nell’acqua dall’altre parte di Punta Alice li piaciva. Da’, ‘u mar era profunn come ‘nu carafùn, ma bello come l’oro. Assunta nuotava, nuotava, nuotava fin dove l’acqua blu nìuro era, e duv i piscican potevano far di lei un solo boccone. In mezzo a quelle profondità li pijava ru spantich, ma questo Assunta cercava, pichì ‘u spàntich le regalava un po’ di vita.
Decidendo di offrirsi ‘n atr café, quel giorno Assunta si fermò sul lungomare. Una tristezza più intensa degli altri giorni le stringeva il petto. Un dolore acuto, come se il cuore volesse venir fuori dal suo corpo per mostrarle la sua collera.
Da un po’ di tempo Assunta non lavorava più. S’ava faticar pe’ nente, piuttosto prefiriva ra fame, ed era quello che faceva. Il rifiuto di nutrirsi era il suo modo di protestare. Come la decisione di non avere figli. ‘A càpa tòsta tenìva, Assunta. Invece di far nascir ‘nu fij ‘nta quir paìsi, idda prefiriva se menar ‘nta faccia da matina a ra sira e si zampare sula sutt i pedi.
Se avesse avuto un po’ più di coraggio, in quel momento avrebbe messo da parte il mare e in ‘mezz a jazz avrebbe cominciato a gridare come ‘na paccia. Ma pe’ paccia daver l’avissin pijat i persun. E allora lasciò perdere.
Se il tempo le aveva insegnato a controllare la rabbia, seduta sulla terrazza del bar, a stento tratteneva le lacrime.
— Ciao Assunta, come sta Turuzz? Salutammìll, le gridò un passante.
Chist’ era l’atr penser chi girava ‘nta capa sòia. Turuzz era suo marito. Picchì s’era spusata, nemmane idda ‘u sapiva. Forse picchì tutti si maritavano quann si facivin rann. Eppure nessun l’aviva forzat. Se l’era scijùta idda ‘u marit.
Lo sponsalizio era stato consacrato nella chiesa di San Cataldo. Il giorno del suo matrimonio c’erano tutti, anche i frati da Germania. Dopo la cerimonia aveva pianto e abbracciato tutti. Ma un mese dopo, le lacrime l’aviva cianciut pe’ ‘a disperazione, cu’ i mani ‘nta capa e rimproverando a se stessa quella sciagurata unione. Pure si jestimàva Turùzz era un uomo buono. Ma lei non lo amava.
Il suo amore si chiamava Ciccio ed era un amore ‘i quann era uajuna e cianciva pe’ nent. ‘Nta chiru temp, idda e Ciccio si virivin subba ‘u murajùn — allora questo c’era — ma senza parrar, o parrar poco, picchì parrar ‘un potivin. Nzama’! Se qualcuno li vedeva trascorrere un po’ di tempo da soli, i genitori di Assunta sarebbero stati avvertiti e il finimondo si sarebbe riversato su di lei.
A dire il vero, i ritrovi in gruppo passavano meglio tra la gente pettegola, ma anche in quel caso, Assunta doveva tenere gli occhi aperti bene assai quando parlava con Ciccio, per scongiurare brutte sorprese — e ‘na passa i paliàt — al suo ritorno a casa.
In quel tempo gli sguardi, le lettere, il detto e il non detto tenevano vivo l’amore suo. Come tutti i fidanzatini, Assunta amava litigare, piangere e fare pace. Oggi riconosceva le restrizioni che subiva quando era ragazza. Ma allora ‘un li ‘nteressàva nènt. Perché la vitalità dimorava nel suo cuore che batteva forte, e questo le bastava.
Come molti amori, un giorno anche il suo era finito. Il papà del suo zìto aveva trovato lavoro alla Fiat e si era trasferito a Torino con la famiglia. Da quel giorno aveva perso Ciccio. Ma no cur pensèr. Canciàt ‘u mùnn era, idda ‘un canciava. ‘A capa tosta tiniva idda.
Un gabbiano volteggiò di fronte al bar in quell’istante e una coppia di ragazzi arrivò abbracciata.
Il paese non era più quello di una volta. Oggigiorno i ragazzi erano liberi di amare alla luce del sole. Un piacere profondo la inorgogliva per questo. Per fortuna il paese era andato avanti; era stata lei a nascere in un tempo sbagliato. Oppure un’ aviva i cabbasisi, come dicivin ‘nta Sicilia. Picchì sempre si può cambiare ‘nta vita.
Finito il caffè Assunta andava al mare in sella alla bicicletta, quando una macchina le barrò la strada.
— Assuntina, non mi riconosci?
A parte un poco di panza, Ciccio era quello di sempre. U’ rìriri, gli occhi e ra vucca erano uguali. Solo quando parlava, non era lo stesso. Ciccio ‘un parrava tciù come idda, ma come ‘i persun ‘i subba, quelli del Nord.
Dopo una lunga chiacchierata, Ciccio le propose di rivedersi la sera. Assunta accettò, e invece di andare al mare ritornò a casa.
Il resto del giorno lo trascorse a farsi bella. Curò le unghie dei piedi e delle mani. Fece un salto dall’estetista. Prima di uscire, rifece la doccia, la terza volta in quel giorno.
‘A sira fatt, il ventilatore puntato subbu ‘u muss, Turuzz guardava ‘na partita ‘i pallon in TV.
— Quann t’ ricòje?
— ‘Un m’aspettar ch’ ‘un sacc. Prese le chiavi di casa e uscì.
Come ai vecchi tempi incontrò Ciccio subb ‘u murajjùn. Ma questa volta da donna libera. E alla fine del paese, nel buio dell’abitacolo, baciò per la prima volta quell’uomo mai dimenticato e sempre amato.
Nella pineta entrambi tolsero le scarpe. Assunta passava davanti a lui con dei zumpi continui, per abbracciarlo e schioccare un bacio su quel bel viso. Da quando aveva ritrovato il sorriso di Ciccio, il mondo sembrava sorriderle. Ed era felice. Lui aveva cuntato da famija sò e di fiji. Ma a idda pur ‘i chista cosa ‘un l’interessava nente. A due passi dal suono delle onde, stese un lenzuolo, e lei e Ciccio fecero l’amore.
Quando lui si addormentò fra le sue braccia, la notte era profonda. Infreddolita dalla brezza di mare, coprì lei e il suo amore con una coperta.
Il cielo era tcino ‘i stelle.
Anche quella notte non avrebbe dormito. Con gli occhi puntati al firmamento, ‘nu solo di penseri li girava in testa. Per la prima volta ‘nta vita sò, Assunta si sentiva fimmina.
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