I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra ‘500 e ‘600
Di Anita Mancia
«Io sonno benandante perché vo con li altri a combattere quattro volte l’anno, cioè le quattro tempora, di notte, invisibilmente con lo spirito et resta il corpo; et noi andiamo in favor di Christo e li strigoni del diavolo, combattendo l’un con l’altro, noi con le mazze di finocchio et loro con le canne di sorgo; et se noi restiamo vincitori, quello anno è abondanza, et perdendo è carestia in quel anno» 253, Appendice: dall’interrogatorio di Battista Moduco 27 giugno 1580.
«Come si fa per entrare in questa compagnia de benandanti? Respondit:
Tutti quelli che sonno nati vestiti sonno de essa, et quando vengono alli venti anni sonno chiamati punto a guisa del tamburo che chiama li soldati, et a noi bisogna andare.
Interogatus: Come può essere questo, che noi cognosciamo molti gentil’homini che sonno nati vestiti, et non di meno non sonno viandanti? Respondit:
Io dico che tutti vi vanno purchè siano nati vestiti.
Interogatus admonitus ut dicat veritatem quomodo ingrediantur in hac arte, respondit:
Non se fa altro [6r] se non che il spirito si parte dal corpo et va via» 254, Appendice.
« […] Solo molto tempo dopo avrei capito che la mia ricerca s’inseriva nel dialogo tra storia e antropologia che cominciava proprio allora, e che si sarebbe rivelato molto fruttuoso […]» 284, «I Benandanti» cinquant’anni dopo».
L’editore Adelphi ha pubblicato una nuova edizione di un libro di Carlo Ginzburg uscito per la prima volta 54 anni fa (1966) e che ha suscitato nel tempo molte reazioni anche di critica, da quelle del Cohn e dello Hutton a quelle del Lettieri al quale si riferisce lo stesso Ginzburg nel suo testo letto alla Scuola Normale Superiore di Pisa il 10 maggio 2017, «I Benandanti», cinquant’anni dopo». Questo testo letto e ampliato nell’edizione di Adelphi è estremamente importante per capire il significato a posteriori della prima ricerca storica di Ginzburg. Egli ricorda infatti, con vivezza di tratti, come questa gli si presentò: «Nell’autunno del 1959, a Pisa, nella biblioteca della Scuola Normale… presi a un tratto (ricordo il momento esatto, stavo fissando uno scaffale a vetri) una decisione, anzi tre: che avrei cercato di imparare il mestiere dello storico; che mi sarei messo a studiare i processi di stregoneria; che mi sarei concentrato non sulla persecuzione in quanto tale ma sulle vittime, ossia sugli uomini e le donne accusati di stregoneria»
Questa triplice decisione è alla base della riflessione metodologica e biografica di Ginzburg sulla sua opera, sul suo lavoro di storico, da cui la sua importanza. I riferimenti storici e metodologici più significativi che egli incontra sono, fra gli altri, una lettura “dei quaderni di Gramsci filtrata dalla scuola antropologica di Manchester”, l’articolo di Hobsbawm “Per lo studio delle classi subalterne”, apparso in «Società» XVI (1960) pp 436-449, l’opera di A. Tenenti e soprattutto Delio Cantimori, suo maestro più significativo che lo incitò a studiare i processi dell’Inquisizione conservati nell’Archivio di Stato di Modena. Il testo ricostruisce le tappe della ricerca di Ginzburg che gli fanno girare l’Italia alla ricerca di processi inquisitoriali e lo conducono al fondo Sant’Uffizio depositato presso l’Archivio di Stato di Venezia. Certamente le condizioni della ricerca, solitaria e unica nel suo genere, sono entusiasmanti.
Vediamo un Ginzburg solo nell’archivio a studiare i processi servendosi di un inventario che, retrospettivamente è una sorta di roulette veneziana. Vediamo un Ginzburg accanito fumatore di sigarette che riflette sul lavoro fatto e da fare e sulla natura unica e originale del suo lavoro di storico. Ma altre sono le fonti e altri ancora i riferimenti di Ginzburg a parte quelli già menzionati. Il metodo seguito è quello della comparazione «più propriamente storiografico» non etnografico. Ragione per la quale non fu affrontato il problema della connessione, che Ginzburg definisce «indubitabile» esistente fra benandanti e sciamani. E qui egli menziona coscientemente i limiti incontrati dalla sua ricerca (290-291).
L’area di essa non era soltanto il Friuli, ma un territorio vastissimo, l’Eurasia in un arco quasi millenario in cui Ginzburg si imbatté tra l’altro, nella «predica in cui il grande filosofo Niccolò Cusano, vescovo di Bressanone, parlò di due vecchie contadine delle Val di Fassa alle quali era apparsa una dea» 291. Un altro autore a cui Ginzburg è molto debitore è Ernesto de Martino, autore de Il mondo magico che deve molto ad una delle opere fondamentali sugli sciamani siberiani: The Psychomental Complex of the Tungux, che l’antropologo russo Shirokogoroff pubblicò a Londra nel 1935. Anche in questo caso l’apporto di De Martino non fu compreso da Ginzburg in tutta la ricchezza della sua valenza, specialmente per quello che riguardava la cosiddetta perdita della presenza, una situazione psicologica alla base dell’epilessia che è fondamentale per comprendere l’estasi sciamanica. Ma qui basti avere accennato agli aspetti metodologici fondamentali contenuti nel testo «I benandanti» cinquant’anni dopo che costituisce la parte finale dell’edizione del libro curata da Adelphi. Tralascio una critica molto gustosa al Lettieri e ai raduni dei benandanti nella valle di Giosafat che il lettore del libro potrà vedere da sé ed apprezzare per il suo significato metodologico. 296-300.
Chi sono i benandanti, dunque? Sono membri di una organizzazione quasi militare che in spirito combattono delle battaglie contro gli stregoni e contro le streghe a colpi di rami di finocchio contro rami di sorgo, per il benessere delle colture dei campi e per la buona riuscita del raccolto. Si riuniscono in queste battaglie quattro volte l’anno (le tempora) e se hanno la vittoria, vi sarà un buon raccolto, altrimenti carestia. La caratteristica – ce ne sono molte di caratteristiche ma questa è una delle principali – di questo movimento è che esso è la sopravvivenza di un culto agrario antico a cui nel racconto dei benandanti viene data una vernice religiosa cristiana in quanto questi combattimenti per un buon raccolto sono fatti in nome di Dio, di Cristo e della Madonna, in nome del cristianesimo, per il trionfo del bene e di Cristo. Questa vernice, se la si vuole chiamare così, è il risultato dell’azione degli inquisitori, quindi dell’opera della Chiesa, che bollano i benandanti come stregoni e cercano di inserire i loro movimenti e azioni nella descrizione di un sabba realistico e diabolico. Qui si misura la distanza fra gli inquisitori e i contadini che esprimono le loro idee dapprima in un modo abbastanza omogeneo, poi sempre più influenzato dalla presenza del ruolo degli inquisitori. Un dato estremamente interessante è quello della similitudine fra il movimento dei benandanti e i loro processi ed il processo contro un lupo mannaro lituano svoltosi a Jürgensburg nel 1692 oltre le date del processo contro il Gasparutto e il Moduco, all’altro capo dell’Europa. Thiess confessa di essere un lupo mannaro e di aver avuto il naso rotto nella battaglia contro uno stregone, Skeistan. Thiess si era recato nell’inferno ed aveva lottato con Skeistan. Benandanti e licantropi mostrano elementi in comune e l’estensione europea di un fenomeno di cui questo libro studia solo la variante friulana.
In un cinquantennio, dal 1575 con il processo a Gasparutto al 1634 con il processo a Giovanni Sion si realizza un capovolgimento completo dei benandanti che diventano da combattenti per la retta fede in Dio, eretici e stregoni essi stessi partecipanti al sabba diabolico. Altre caratteristiche del movimento dei benandanti sono il rapporto con le processioni dei morti, con il mondo dei trapassati (si veda il processo iniziato nel 1582 contro la moglie di un sarto, Aquilina pag. 84 e sgg), e due, direi soprattutto che colpiscono il lettore. La presenza in tutti i benandanti della camicia, del cencio amniotico, che è una sorta di parte esterna dell’anima con cui tutti sono nati e che li spinge all’età di venti anni ad andare alle riunioni e ai combattimenti in spirito. Qui l’altro elemento importante. Andare a combattere in spirito necessita che il corpo del benandante giaccia esanime mentre lo spirito esce e il combattente, che prende la forma di un animale, una lepre o un topo o una farfalla, va a combattere in spirito. Finita la battaglia – che può durare tre ore – lo spirito ritorna nel benandante e questi diventa normale. Ma se il suo corpo fosse rivoltato, lo spirito patirebbe troppo ed il benandante rischierebbe di morire. Lo spirito viene vissuto dai benandanti non come immateriale, ma materiale, come un sorcio per esempio, che ritorna nel corpo del benandante una volta che la battaglia sia stata combattuta. L’estensione di questo movimento va dall’Alsazia, all’Europa Centrale fino al Tirolo e alla Svizzera. Ha dunque una apertura europea molto ampia e si mantiene nella misura in cui non si disperde il nucleo originario familiare da cui deriva. Ma ci sono soprattutto i processi inquisitoriali che lo modificano.
Si potrebbe tentare una razionalizzazione di un fenomeno di religiosità popolare ricorrendo a spiegazioni medico psichiatriche, ma siccome i nuclei che interessano i movimenti e che li coinvolgono sono molto ampi, le spiegazioni psicologiche che si potrebbero dare sarebbero forse riduttive.
Il testo di Ginzburg è estremamente interessante e racconta le vicende processuali in modo drammatico e vivo, mostrando la tensione fra inquisitore e inquisito. Soprattutto viene in chiaro come i benandanti e le streghe che offrivano le loro capacità di guarire bambini e persone fatturate da streghe fossero molto poveri, ragione per la quale chiedevano un importante compenso economico.
Si raccomanda la lettura dei processi di Gasparutto e di Battista Moduco (25-49) perché sono i primi ad interessare l’inquisizione in Friuli tra 1575 e 1580 e quella della moglie di un bottaio, Maria Panzona arrestata alla fine del 1618 per aver rubato fazzoletti, camicie ed altri oggetti conservati come ex-voto ed elemosine nella chiesa di Santa Croce (174-184); la lettura del processo di Giovanni Sion nel 1634 che fornisce la descrizione del Sabba diabolico secondo le linee ricorrenti in tutti i trattati di demonologia (181-194); e quella del processo di Michele Soppe dell’aprile 1642 (194-216). Per i tratti umani che solleva è di interesse l’interrogatorio di Menega (30 gennaio 1648) figlia di Camillo di Minons (225-227). Infine la testimonianza non viziata da pregiudizi, forse, di una donna di Gradisca (1668), che si chiama Caterina Sochietti che aveva preso in casa sua una bambina, Angiola, che le era parsa troppo licenziosa. A questa bambina inconsapevole si deve la descrizione del sabba diabolico.
Un libro vivo anche dopo cinquanta anni, valido, dunque, che restituisce voce a nuclei umani, persone, altrimenti destinate all’oblio.
Saggistica
Adelphi
2020
311 p., brossura