Agosto di pomeriggio (La regata)
Metabolizzare un panino con salsiccia par non essere un lavoro impegnativo, tale anzi è il fatto che lo stomaco ringrazia, così come in verità mi pare gran cosa, godere di una fame sana; recitando una specie di fioretto, mi sono poi astenuto dalla gran briccona, quella senape che è pure un’imbrogliona.
Son giunte ormai le due, di un pomeriggio fra i più estivi, ed io mi sento, come dire, preso da un fare lusinghiero. Ho dato del meglio, parlo come mangio, mangio come parlo e finalmente traggo un sospiro. Ah, poi che fortuna, poter pensare a quel che vedo!
Nel passeggiar tra i miei luoghi lacustri, scorgo l’hotel Villa Maria dividere la strada dal declivio; le matematiche, archetipe balaustre, guardiane divisorie si dilungano precise con decoro; i vasi sopra paiono fioriti di rossore. Quattro imposte aperte come caverne primitive vanno scrutandomi con mille sbadigli a bocca piena e noncurante; maleducata, è anche la gran porta del salone: dei balli, mi par quella. Bianchi stucchi fiorentini si commuovono stufati e consunti, consumati fra gli interni, meraviglie per nessuno. Eppure, qualcuno ci sarà, magari in tarda età entro una camera lassù, fra mura antiche che sanno bene dell’oblio, qualcuno rimarrà immobile e fermo, ora, a rimestare, a reggere il barlume del pensiero di un addio.
A parte la spoglia stanchezza, un olezzar di brezza inscena soffi e ripar- tenze, dei fiori ne trasporta quintessenze, mentre io pur agile in incognito, come il più malvagio dei ratti indugio, sulla riva a rimirar già, con presentir vago, un singolar tepor stendersi sul lago.
Proprio in tal modo adorno, appare il mio pensier del giorno; nonostante la calura, taglia, scinde, lui cesura! Elabora, cuce, come in controluce, netto, lindo, tagliente, pontifica come fosse niente. I giovani tigli a filare filano e sussurrano, le nuvole sui monti là si azzurrano; ma è… che anche il ciel mi fissa nel suo apparire terso, siccome un mesto languor laggiù s’è perso; in cotanta fantasia, in cotanta meraviglia, potrebbe assomigliar la guancia di una barca persino alla sua chiglia?
Ville, giardini; là una salita incontro a dimora incipriata, qui un gran casone, luogo di storia e di blasone. Cancellate a ghirigori come lance, cornicioni asprigni al sole come arance, sassi battuti sui gradini, chiese dolci alla maniera dei budini, muri come baccelli di vaniglia, oh numi, nel veder tutto ciò a volte ci si sbaglia, pur di rimaner qui a lungo sovverrebbe anche la voglia.
Comodo, cammino in fantasia, sorretto dai braccioli di poltrona da studio- lo immaginario, artificio di rotelle, manufatto saldo intessuto di gran pelle. Non paura, l’orizzonte mi sostiene, l’allegria lo intrattiene, quel pensiero vagabondo che tanto e intanto fugge, senonchè mi tendo e lo riprendo. Non an- dare, non lasciarmi, non cessare di estasiarmi, non parlare, non flettere e riflettere, nemmen quel soffio così dannatamente tuo lo dovrai smettere.
Garofani rossi come cofani di auto sportive, forme oblunghe di ore nel tempo tardive, fringuelli volar nel vento al gaio dondolar contento, scorze di limoni e limonate sopra grassi tavoli di turisti mai visti, muri a secco ergersi fieri senza trucco; felice ero, ed in quei luoghi mi sentivo, e l’allegrezza mi parlava, quasi stessi prendendo… cinque piccioni con una fava.
In quel borgo dimentico dal sorriso sempre identico, transito pimpante ac-canto ad un caffè per caso; è luogo di ristoro, vedo. Meloncello o limoncello, domanda il cameriere con inchino di sussiego al tavolo là fuori; esprime il gesto di un sorriso, tra il suo labbro par non esserci del vero, però il diploma, quello sì, è da alberghiero. Tergiversa il suo cliente, innanzi al far galante, non capendo, trasalendo un po’ esitante. Musica poi si leva un po’ farlocca, ad un tavolo discosto e cibo in bocca, della festa l’ora scocca, filastrocca, saltimbocca…
Ma è tempo di inalare sulla riva quel che arriva, par sempre un soffio d’aria un po’ tardiva. Meravigliarsi, ma poi, che vedo? Donna russa nell’attesa, proprio giù per la discesa, occhi freddi come il ghiaccio, non so già a quel punto quel che faccio. Hai mai visto, caro tu, pupille ambrate, gemme simili a vetrate, tanto dolci, colorate, bramose guance di carezze immacolate. Bionda, bella, ricca, altrimenti, accidenti a me che chicca!
Dopo poco lei mi vede, già il cuor mio intenzione chiede. Quanti istanti a tergerne, oh dea, lo sguardo effluvi insù spargea, se non più, pari a quelli di una vergine. Viso diafan di magrezza, sottigliezza scompigliata a ciuffi erranti, occhi vispi, miraggi incandescenti, al soffiar di calme, tiepide brezze erranti. Son vicino, ed ancor più mi ravvedo che parlo, parlo a lei sul serio, proprio come in un diario; il bel viso che m’incontra, sussulto innanzi a quel che vedo, odo parole alle quali nemmen credo.
Non ritrosa, non paurosa, e nemmeno sospettosa. Bella mia, cos’altro fai, tutta sola, nel tal luogo qui, ove quasi il tempo vola?
Attendo sì con l’anima feconda, laggiù sembra già sparito, proprio dietro il far dell’onda, laggiù esiste mio marito, dice sol di primo acchito.
Dov’è ben quel fortunato, chiedo allora io stupito.
Non un gesto della mano, non il fare che sconsola, dal suo labbro canterino non sortisce una parola. Sta facendo la regata, si confida con candore. La mia mente alfin stupita già di lei se n’è invaghita. Poi lo sguardo in lontananza va a pescare, quasi fosse lunga lenza, un perfetto navigare, quell’andare con pazienza, sulle onde là lontano, bianche vele al piè si rizzano, quindi al vento si raddrizzano, stormi alati, neri uccelli gridan che nel cielo impazzano.
Mio marito è proprio là, sta girando in tutto tondo, come un bravo timoniere, quella vela è un po’ il suo mondo, quella barca è il suo mestiere.
Tutto questo è il suo daffare, nulla a me vien da ridire, vien ben altro a cui pensare, come fosse un tornaconto, quel che penso è ciò che conto. Quanto dura la regata, non sarete… voi per caso un po’ annoiata?
Fra due ore lui è qua.
Fra due ore, già!?… Mi par questa vera una vera e-ter-ni-tà!
Cosa faccio? Se va ben la prendo al laccio. Non che voglia smaritare, non che voglia io brigare, pure peggio insinuare, ma in due ore, dico due, quante cose possiam fare?
Alle buffe mie parole d’ingegno, alfin con occhi abbagliati lei sembra accettar l’impegno, or già tengo la mano sua, quasi quasi senza alcun ritegno. So pur, bella mia, qual cosa si fa, e certo per conto e per bene, qualsiasi cosa ognor si conviene, quali venture già spetterebbero chiare alla vostra beltà, pure il pensier mio le intrattiene e mira a quel luogo gentile, un luogo per noi, vorrei dire. Nel gesto mio sano d’ardore un fremito par salirmi alto, dritto dritto al core.
Chi saprà mai qual gioco sia questo? Ma via… Mia per due ore, follia fa- remo a qualunque costo. Ecco dunque l’albergo un poco discosto, lo scalone, la stanza, i fiori, il verone, oltre l’imposta i mille colori, tavolo a due, valzer, liquori. Va il maggiordomo con fare galante. Che fa? S’avvicina poi fugge per noi il pensiero esitante. Soli, bella mia, or finalmente, che l’attimo pieno s’è fatto intrigante.
Perdonate madame, l’ardore, e tanta destrezza, suvvia beviam, per voi la rosa entro il vaso sì gentile olezza. E quest’aura di suoni e parole, le voci, le croci, i gai toni, qualunque gesto facciate son tante, son belle, le cose che voi incoraggiate, effluvi si stringono tra le esili colonne, tra i ricoveri di verande appena appena ombreggiate.
Quanto abbia a durar questo suono…, quanto è dolce l’orchestra, non so trattenermi dal condurvi dappresso a un gran vaso di ginestra, poi un passo, un altro ed un altro ancora, per giungere accanto, sì, ad una immensa, va- porosa finestra; non vedete anche voi qual paesaggio si stende, non sentite che un miraggio ci prende, là lontano sulle balaustre par levarsi un’ode lacustre, tra gli ulivi ed i fiori, tra mobili e cammei, come ardentemente baciar la vostra mano vorrei, e stringer nell’altro istante piano, il sogno ardito sull’orizzonte mio lontano.
Chi vincerà la regata? A questo lei pensava, ed ancor non capiva, siccome lui starà forse tornando alla riva? Tali cose ancora, lei si chiedeva.
Ma intanto gli sguardi nostri si abbracciano, pur tuttavia gli stessi abbracci discacciano. Oh, morte, no! Non vorrei far soffrir quel consorte, colui che vi attende. Sapete, è quel fare pulito che a volte mi prende, volevo soltanto passar le due ore, due ore innocenti, a scorger sul viso vostro, inaudito, i pensieri ridenti, scacciare infine i miei gesti sì, impertinenti, tutto nel guardo vostro, negli occhi, desistere ancor pria che un maldestro desio mi tocchi. A voi, madame, un ultimo sorso.
Ed ora torniam, e voi da vostro marito.
Ebben lo confesso, volevo solo star solo, compagno in vostra compagnia; quali beltà in due ore, or tutto è finito e così sia.
L’immagine di copertina è Regate ad Argenteuil è un dipinto a olio su tela (48×75 cm) realizzato nel 1872 dal pittore francese Claude Monet. È custodito nel Musée d’Orsay di Parigi, che ne è in possesso dal 1986.