Tamarisk Row, l’elegia di Gerald Murmane per il cavallo perdente
Di Alessandro Vergari
Sul finire degli anni Quaranta del Novecento, a Bassett, sperduta cittadina della regione settentrionale dello Stato australiano di Victoria, Clement Killeaton, nove anni, immagina. Clement, con l’ausilio di legnetti, fogliame e pietruzze, elementi abilmente collocati sul terreno, ha trasformato lo stretto cortile di casa in un ippodromo che solo lui è in grado di vedere. L’evento dell’anno, la Gold Cup, attende i suoi protagonisti: sono cavalli, ovviamente, che rispondono ai nomi di Hills of Idaho, Proud Stallion, Silver Rowan e, soprattutto, Tamarisk Row, il suo favorito. Nel magico vorticare dei colori delle proprie giubbe, i fantini lanceranno i prodigiosi puledri sui rettilinei di polvere dorata, suscitando speranze di vittoria nei proprietari e sogni di ricchezza negli scommettitori. Il mondo privato di Clement è il riflesso del mondo che ha intorno.
Suo padre Augustine proviene dal Distretto Occidentale, duecento miglia di distanza da Bassett. Augustine è divorato dalle passioni intrecciate per i cavalli e per le scommesse, due tentazioni che si alimentano a vicenda. Appena trasferito, ancora celibe e solo, al termine di una traversata nelle pianure, per provare l’avventura delle corse l’uomo acquista Clementia, castrone di tre anni. Clementia, montato da Harold Moy, fidato fantino dalle fattezze cinesi, a sorpresa vince la prima gara, che sarà anche l’ultima, a causa di un grave infortunio alla zampa. La fortuna passa allora da Len Goodchild, a capo di un pool di giocatori professionisti di Melbourne. Augustine si offre come rappresentante, con l’obiettivo di racimolare qualche soldo per organizzare il matrimonio con Jean.
Clement e Augustine sono le due figure principali di Tamarisk Row, letteralmente ‘fila di tamerici’, opera d’esordio (1974) dello scrittore australiano Gerald Murmane, pubblicata nel 2020 da Safarà con la traduzione, anche tecnicamente accurata, di Roberto Serrai, volume impreziosito da una meravigliosa copertina. È il secondo romanzo di Murmane proposto ai lettori dalla casa editrice di Pordenone dopo Le pianure. L’autore, ormai ottantenne, più volte accostato al premio Nobel, ha collezionato una serie di definizioni e connotazioni interessanti, da “il più grande scrittore che nessuno ha mai letto” a “una sorta di scrittore per scrittori che vivono di scrittura”.
Leggere Tamarisk Row equivale a immergersi. Immersione intesa come esperienza radicale, dove ciò che conta è lo stacco, il passaggio di soglia. Dalla prima all’ultima pagina occorre mediare tra le categorie cognitive del sé adulto, offuscato dal disincanto, e le sensazioni, visioni, fantasie dell’infanzia, improvvisamente solleticate da un principio di eros, risvegliate all’avventura.
“Ho pensato a un modo per definire il tipo di narrazione che ho utilizzato in Tamarisk Row”, scrivelo stesso Gerald Murmane nella prefazione all’edizione australiana del 2007, qui ripresa, “la chiamo ‘narrazione ponderata’. Di certi romanzi si potrebbe dire che danno vita ad alcuni personaggi. Vorrei che di Tamarisk Row si potesse dire che abbia dato vita al personaggio che ne è responsabile: al narratore attraverso la cui mente il testo viene filtrato”.
La realtà presta al fianco ad associazioni di senso sorprendenti, il pensiero si coagula in impressioni simili a fantasticherie spiazzanti, il tentativo di spiegazione del reale si risolve in intuizioni complesse, in immagini che attirano a sé altre immagini, in concatenazioni di idee che sfuggono alla perentorietà dei concetti. Esuberanze colte nel loro germogliare e spesso articolate in lunghissimi, complessi periodi, una grammatica della coscienza in divenire.
Un esempio:
“Dopo essersi bagnato tre volte all’acquasantiera resta immobile per un attimo, guardando la frangia più bassa del colossale fascio di squisiti raggi dorati che scendono tra le travi polverose del soffitto e racchiudono in una ragnatela quasi invisibile le panche laccate, l’invalicabile ringhiera dell’altare, e al di là lo stesso altare color rosa e panna”. Fin qui, nulla di strano. La frase riflette una situazione. I Killeaton sono cattolici, parte di una minoranza, quindi, in una nazione a prevalenza protestante. A Bassett l’istruzione corre su binari differenti per le due confessioni, i “papisti” mandano i propri figli alla St.Boniface, i protestanti ripiegano sulla scuola statale. Clement si trova in una chiesa, desideroso di assorbire l’atmosfera di preghiera, il suono felpato delle voci recitanti, i dettagli minimi del culto. Gerald Murmane, non a caso avvicinato dalla critica a James Joyce, si affida alle potenzialità della struttura sintattica. Paratassi e ipotassi, alternativamente o in collaborazione, costringono la prosa a farsi ellisse. Le incidentali abbondano, rivelando un viluppo di impressioni e un flusso di pensieri destinati a combinarsi. L’invenzione stravolge il piano della riflessione. Il lettore si cala tra gli anfratti del periodo, in apnea:
“Ora scendendo verso gli strati d’aria dove le preghiere bisbigliate dai fedeli in ginocchio si trovano al primo stadio del loro tortuoso viaggio lungo quella rete misteriosa, ora gonfiandosi verso le chine prive di colore dove le complicate vesti degli ultimi angeli e santi potrebbero a volte transitare con noncuranza, questo labirinto di percorsi diafani, dove anche un angolo remoto è più intricato e multiforme dello schema delle strade di una città sconosciuta o dei percorsi del bestiame o delle lepri o delle persone di tanto tempo fa sull’erba delle pianure dell’interno o della sequenza di sete colorate a intervalli di cinquanta iarde in gare importanti sulla lunga distanza in grandi ippodromi o dell’ubicazione anno dopo anno dei nidi ben intrecciati di uccelli collocati con astuzia nei densi boschetti di mille strette gole, tenta chiunque osservi il suo scintillio diffuso e pulsante a ordinare i propri passi o lo spostamento involontario dei propri lineamenti o il riversare dei propri pensieri indisciplinati in una parvenza della prima disposizione irregolare ma affascinante dei viottoli in un ampio panorama lungo i cui sentieri più lontani e scintillanti forse nemmeno i più saggi o santi di preti e suore hanno ancora viaggiato”.
Incasellare Gerald Murmane in una corrente o in una scuola non è un’operazione intellettualmente semplice. L’autore non ha mai valicato i confini della sua regione natale, il Victoria. Il suo immobilismo stanziale si è trasfigurato in una metafisica dei luoghi. L’originalità del suo tratto, sospeso tra fisica ricognizione del territorio amato, trascendenza lirica e aspirazione all’universale, non tracima mai in un vuoto, sterile sperimentalismo. I riferimenti suggeriti da alcuni critici, Cormac McCarthy, Samuel Beckett e Johnny Cash, sono certamente corretti. In merito alle assonanze musicali occorre però andare oltre. Per stile, ricercatezza formale, torsione imposta alla struttura della frase, lo scrittore ricorda, almeno nei suoi repentini scatti lungo il crinale dell’improvvisazione, le sovversioni del free jazz o le deviazioni destrutturanti del post-rock.
Tamarisk Row è un’epica dell’io, un viaggio nel vasto territorio inesplorato popolato dagli altri: maneschi compagni di scuola implacabili nel bullizzare i più deboli, coetanee in possesso di segreti riposti in scatole di metallo inaccessibili, casalinghe in attesa di ascoltare alla radio locale i grandi successi dei crooner americani, suore dal piglio militaresco dedite al “sorvegliare e punire”, appassionati di corse arroccati la domenica sotto una palma da datteri sul piazzale della chiesa, adulti rovinati dalle scommesse e soffocati da debiti forse inestinguibili. Il microcosmo interiore di Clement è una biglia di vetro che contiene infiniti mondi. Al centro del suo universo solitario, il figlio di Augustine forgia le prodezze del fantastico cavallo, Tamarisk Row appunto, allenato nell’omonima porzione di territorio australiano, altrettanto fantastica. La sua vitalità di ragazzo al limitare della pubertà produce aperture vertiginose, connessioni oniriche con l’ignoto spazio profondo, la sconfinata distesa di pianure che introduce all’outback desertico. L’immaginazione, non ancora stritolata dalle restrizioni imposte dal disciplinamento etico/pratico dell’età adulta, cinguetta con gli scarsi e scarni libri del padre, testi sulla flora e sulla fauna del continente, l’Australian Bird Book in particolare. Murmane sospende questa transizione tra il prima (l’infanzia) e il dopo (la responsabilità), permettendoci di sostare nella terra di mezzo dell’insolenza creativa, all’interno del libero gioco delle facoltà rappresentative.
Tamarisk Row è un’apoteosi di colori che compongono arcobaleni perfettamente normali:
“Clement va al negozio della signora Linahan e sceglie un rosario con l’etichetta Vero Corno Irlandese Fabbricato in Irlanda. Attaccato ai grandi c’è un crocifisso scuro che sembra fatto di ambra con alcune bolle intrappolate dentro, e i grani per la Ave Maria sono di un blu venato di verde e ciascuna diversa dalle altre per tonalità e forma… Diventa così bravo che gli bastano pochi secondi per collegare la minima sfumatura di un impenetrabile verde bottiglia in uno sfuggente e frammentato giallo limetta a un certo paesaggio che un tempo Nostro Signore deve avere attraversato…”
Tamarisk Row è un’escursione nella dimensione febbrile della sessualità, è il resoconto di una battaglia tra il timorato pudore e il pruriginoso capriccio all’alba dei sensi:
“Solo la distesa imponderabile di queste praterie senz’alberi è abbastanza enorme da racchiudere il percorso di mesi verso un accenno di colline pedemontane, che è ciò che vede davanti a sé ogni volta che fa voto di amare Barbara Keenan, A scuola quasi ogni giorno guarda la pelle rosa e pulita sopra alle sue ginocchia che non sono segnate da cicatrici o abrasioni per essere caduta sulla ghiaia dei viottoli e sul terreno della scuola, eppure si rifiuta di fantasticare sulle sue cosce e sulle mutandine e punta gli occhi invece su una linea viola proprio al di sopra dell’orizzonte estremo”.
Tamarisk Row èun avvicinamento graduale al mistero, è un sortilegio che si fa prossimo:
“Il giardino è deserto. In una finestrella rotonda una gazza di vetro colorato in blu reale e bianco spunta da un boschetto di foglie e fronde verdi e oro. Clement sente un debole grido da dentro la casa, dove la luce deve allungarsi in pozzanghere verde verde e oro dietro a quelle splendide foglie di vetro. In un crepuscolo silenzioso, colorato come le parti più interne di una foresta, le persone che conoscono i segreti del bush australiano invece dei misteri della religione cattolica si godono il vero significato di una poesia”.
Tamarisk Row è un racconto di microcosmi, un’evocazione, una visione, una rifrazione del vero:
“Margaret Wallace è dall’altra parte della fitta rete metallica. La porta della voliera è chiusa, e la chiave è appesa al polso di lei leggermente coperto di efelidi. Si vanta con Clement di poter scomparire dietro a certi alti ciuffi di canne intorno a un basso acquitrino erboso che suo padre ha copiato da un pascolo costiero nel sud-ovest del Victoria. Quando lei scompare, Clement sente lo svolazzare e gli schizzi d’acqua dei tuffetti e delle sciabiche spaventate. Quando torna lui le chiede che genere di paese si allunghi nell’interno dietro a quei freddi acquitrini”.
Tamarisk Row è la successione dei capitomboli finanziari di Augustine, allevatore dilettante di robuste galline, padre e marito poco presente nelle dinamiche familiari, uomo ostinato nel credere al colpo risolutivo alla roulette dei cavalli. Augustine, perseguitato dalla sfortuna, avvinghiato, in ragione dell’ambizione e del bisogno, a cattive amicizie, castigato dal demone delle scommesse e mai del tutto integrato nel grezzo tessuto sociale di Bassett, si salva per un soffio dal tracollo:
“Clement entra in cucina e sente alla radio che i cavalli sono alla barriera della gara di Mishna a Flemington. Augustine si siede e si mette il figlio sul ginocchio. La signora Killeaton si mette a spostare i mobili in una delle stanze sul davanti per dimostrargli che non vuole sentire un’altra telecronaca di gara. Lontano al di là di oltre cento miglia di alberi erbosi che scendono da una parte e dall’altra della lunga strada e della ferrovia che li attraversano da Bassett a Melbourne e delle colline coperte di alberi e delle piccole valli che solo la luce del sole può cogliere in una sola occhiata, all’ippodromo di Flemington che Clement non ha mai visto il gruppo dei concorrenti scatta e la gara inizia”.
Tamarisk Row è l’elegia di Murmane per tutti i cavalli perdenti e sconfitti:
“Col numero quindici Tamarisk Row; un verde di una tonalità che in Australia non si è mai vista, l’arancione delle pianure senz’ombra e il rosa della pelle nuda, per la speranza di scoprire qualcosa di raro e durevole che possa sostenere un uomo e sua moglie al centro di quelle che sembrano essere niente di più che ostinate pianure dove trascorrere lunghi anni privi di eventi aspettando il pomeriggio in cui loro e l’intera città che assiste vedranno nelle ultima falcate di una gara qual era lo scopo di ogni cosa”.
Letteratura
Safarà Editore
2020
308 p., brossura