Crepitiod i stelle, di Jòn Kalman Stefàmsson
Di Anita Mancia
«Tryggvi fissa Pétur con rabbia ma a me viene un brivido freddo, e in un istante capisco, riesco a sentire quello che si chiama tempo. Lo sento come un lieve ma profondo dolore.» 157.
Questo romanzo, Crepitio di stelle, di Stefánsson, uno degli autori islandesi più pubblicati da Iperborea, è articolato in quattro parti e segue la storia di tre generazioni che non conosciamo dai nomi, perché l’autore non li dà mai, ma dalla voce narrante che è quella del figlio del muratore, il pronipote del bisnonno paterno, dell’età di 7 ed 8 anni, ma in realtà più grande. L’evento centrale intorno a cui il racconto ruota è la morte della madre in giovane età, quando lui era un bambino e ancora non poteva vedere come un adulto quello che gli stava succedendo, ma poteva sentire perché il sentimento del tempo era già in lui. La mamma muore in un ospedale di Reykjavík e lui, per un certo periodo di tempo, rimane solo con il padre, quando improvvisamente compare una donna, la matrigna che occupa il posto della madre. Il bambino-voce narrante- non vede di buon occhio questa donna, che prepara al padre e a lui tutti i giorni una zuppa di avena assolutamente immangiabile, ma che i due devono ingurgitare per farla contenta. La matrigna ha anche una famiglia, i genitori, le sorelle e un fratello che una volta vengono a trovare la famiglia, con grande disappunto e ironica sorpresa, del bambino e del padre. Solo una volta la matrigna, una donna magra e legnosa rappresentata come in un quadro, diviene umana e tenera, quando fa portare in una botte carne di foca che era abituata a mangiare nei fiordi del nord da cui proviene, e pinne di foca, che fortunatamente il padre ed il figlio non devono mangiare. Singolare e quasi umoristico è il volto della matrigna quando mangia le pinne: «… La matrigna si siede al tavolo di cucina e comincia a masticare una pinna. A quel punto succede qualcosa, perché la sua faccia normalmente dura si ricopre della morbidezza del muschio. E’ una cosa molto affascinante» 136. Il bambino vorrebbe approfittare di questa morbidezza per raccontare cose del condominio che la matrigna non conosce, ma ha paura che il suo volto si indurisca di nuovo. Così da solo, con i suoi soldatini che gli sono stati comprati dallo zio dopo la morte della mamma, medita sul da farsi. E sceglie di usare poche parole per non sprecare l’effetto della pinna di foca sulla matrigna: così il sabato sera, giorno di vacanza, il bambino comincia a raccontare alla matrigna – di cui non è detto il nome – cose che lei non sa: «Un sabato sera dopo l’altro, il mondo sprofonda sempre più nelle brevi giornate invernali, le stelle scintillano nel cielo, la luna cresce e io e la matrigna stiamo in cucina. Lei mastica le pinne di foca, io cerco di spiegarle il mondo a parole e papà sta in soggiorno davanti alla televisione e si diverte con Get Smart» 139.
Il ricordo della madre per il bambino è talmente forte che durante i lavori di casa della matrigna, lui si siede su una delle poltrone rosse comprate dalla mamma e finge d leggere mentre lei spolvera: «Quando si avvicina alla fotografia di mia madre il cuore mi batte così forte che fa quasi male e i soldatini in camera ma si scambiano sguardi pieni di apprensione. La matrigna solleva la fotografia, vedo quel volto sorridente che si alza, la matrigna spolvera la mensola, rimette la foto al suo posto.» 132. Tale è l’amore che lo lega alla madre, che il bambino-narrante aggiunge la sua riflessione: «Aspetto questo momento per tutta la settimana. Ci penso mentre scendo il pendio e passo davanti all’asilo per andare a scuola, ci penso quando uso il seghetto durante l’ora di falegnameria e l’insegnante gira per i banchi e dice come dobbiamo comportarci per diventare degli uomini veri» 133. La madre era una donna molto bella, che nel romanzo viene introdotta all’improvviso, un giorno che invita, quasi per caso, il padre ad andare al cinema la sera e lui ci va. Vorrebbe andare a vivere con la sorella a Praga, ma preferisce l’amore del padre del bambino-narrante che racconta la storia della famiglia prima che lui nascesse. La madre amava la poesia e le canzoni di Elvis Presley, le cose belle, i capi di vestiario anche se costosi per le sue possibilità, era distratta e dimenticava di mettere l’acqua nelle pentole facendo bruciare pentole e ingredienti. Non amava il lavoro normale: aveva un posto in banca, ma avrebbe incenerito tutto il denaro della banca pur di non annoiarsi. Così si licenzia e lo dice al marito che si preoccupa: d’ora in poi dovrà essere solo lui a mantenere la famiglia. Ma la sua morte colpisce duramente marito e figlio.
Il romanzo presenta altre figure molto ben riuscite e caratterizzate con vivacità e forza: il bisnonno, che aveva delle crisi etiliche perché amava l’alcol e il fumo, che aveva doti e buone qualità come agente immobiliare, ma che letteralmente mandava in fumo ciò che costruiva a causa della passione per le donne, l’alcol e il fumo. La bisnonna, donna bellissima di cui il bisnonno si innamora pur se lei aveva oltre venti anni meno di lui, e la famiglia della madre in cui c’era un poeta – lei amava la poesia – e una scrittrice. Altri caratteri originali sono quelli di Söbekk, e Bödvar, il panettiere, con il suo amore per l’armoniosa lingua italiana.
Particolare, centrale significato hanno le case e i condomini in cui il protagonista è vissuto, al punto da fargli compiere una effrazione nella casa dove ha vissuto da bambino per vedere che ne è stato del suo vecchio appartamento: «Ho la testa piena di pensieri, poi mi fermo a lungo davanti alla porta dell’appartamento al primo piano a sinistra; dietro quella porta c’è il mio passato. E adesso? Non avevo mai pensato a cosa fare una volta arrivato a questo punto; qual è la cosa giusta da fare?» 127. Decide di compiere una effrazione: «Nessun problema a smontare le viti dallo stipite, forzare la serratura con una penna biro, ed ecco che la porta si apre. Sì, la porta del passato si schiude ed entro nel mondo della mia infanzia.» 128. I ricordi vengono giù a cascata, ma non basta. Il bambino-voce narrante-adulto decide di scrivere una lettera ai nuovi proprietari per giustificare la sua effrazione. E nella lettera dice: «Mi viene in mente che espressioni come “a casa” e “nostalgia di casa” si riferiscono in primo luogo al profondo desiderio di ritornare dalle persone che sentiamo legate a noi. Tornare da coloro a cui ti senti legato, a cui vuoi legarti, a cui sei stato legato in passato oppure immagini di essere legato; di stare insieme a loro. Sarà corretta la mia interpretazione? Non lo so, ma in tutta probabilità “casa” è al contempo la parola più tetra e più luminosa di una lingua. Per questo dobbiamo utilizzarla con giudizio» 131.
Un altro momento del romanzo è la descrizione degli effetti sull’Islanda della prima guerra mondiale, che toccano la famiglia del bisnonno come tutto il Paese da lontano, fatta eccezione per la terribile epidemia di spagnola che colpisce duramente Reykjavík. Il bisnonno si fa in quattro per essere utile alla sua famiglia e alle famiglie della città. Pur toccato dalla malattia, ne esce come ogni membro della sua famiglia e vaga per Reykjavík alla ricerca di medicine e di famiglie che abbiano bisogno di aiuto. Il paragrafo blu è il colore della morte è forse fra i più intensi del romanzo.
Per noi lettori italiani abituati al Manzoni e alla madre di Cecilia nei Promessi sposi questo brano forse perde un po’ della sua efficacia, ma non della sua drammaticità e forza. Il nonno vaga appunto alla ricerca di cose e famiglie da fare e aiutare quando: «Una volta deve adagiare sul carretto il cadavere di un bambino, un bambino di cinque anni, bluastro, che giace in mezzo ai genitori. Si erano distesi a letto accanto a lui per tenergli caldo, ma poi entrambi hanno perso conoscenza, distrutti dalla febbre, e il piccolo è morto senza che loro se ne accorgessero. Il bisnonno depone cautamente il bambino su un carretto, gli accarezza il volto infantile. Non c’è niente di più indifeso di un bambino di cinque anni» 148.
Forse una delle parti più belle ed originali del romanzo è quella dedicata a Bardastadir, il terreno che il bisnonno acquista per vivere con la famiglia sulla Snaefellsnes, vicino al ghiacciaio Snaefellsjökull.
La famiglia del bisnonno prende un traghetto da Arnarstapi fino alla fattoria che ha acquistato. La narrazione del viaggio e della vita nuova sulla Snaefellsnes potrebbe essere epica, ma ha anche qualche cosa di ironico e umoristico. Il bisnonno «parla per proclami in quei primi giorni sulla Snaefellsnes, come se fosse su un palcoscenico o stesse creando il mondo» 172. Scrivendo all’amico Gísli gli dice: «Qui succede qualcosa di grandioso Ti misuri con te stesso ogni giorno. Qui torni a orientarti nella giusta direzione. Qui non c’è lo spirito dei nostri tempi, le montagne non hanno idea di che secolo sia. Ti misuri con la natura, ogni momento, ti fai i calli sulle mani. Sì! Un callo sul palmo rivela se hai vissuto o no!» 172. Eppure il bisnonnno così baldanzoso ha paura del mare, della sua profondità, e difficilmente uscirebbe in mare appunto, in barca come gli fa notare la bisnonna, per andare a pesca. Così alla bisnonna che gli ricorda la paura del mare risponde piccato e quasi eroicamente: «Ridi pure di me, ma le paure sono fatte per essere superate. Più grande la vittoria, più grande l’uomo!» 173. Nonostante la sua baldanza il bisnonno non riesce ad ambientarsi nella Snaefellsnes. La sua mentalità richiede un cambio. Vedremo che soluzione sorprendente prenderà la sua vicenda leggendo la fine della terza parrte.
Comincia la quarta parte del romanzo, che è dedicata al passato e al presente ottanta anni dopo la morte dei bisnonni, delle prozie e delle zie. Il finale tira le somme della vita di sei persone: «Sei vite, centocinquant’anni e un marinaio dai capelli rossi; avrei avuto bisogno della lingua intera per raccontare di loro come si deve. E presto non ci sarà niente a ricordarli, se non una conchiglia di strombo e un sasso che sembra un esserino. Un giorno, prima o poi, li riporterò tutti e due sulla Snaefellsnes e li lascerò al loro posto: il sasso sulla collina, la conchiglia in mare. Grazie per avermeli dati in prestito, dirò» 230.
La natura ha prestato alcuni dei suoi elementi alla vita dell’uomo, ma questi è abbastanza saggio e onesto da restituirglieli perché le appartengono. Un bel romanzo, di lettura piacevole, che segnala se stesso soprattutto per essere poesia in prosa, scritto in modo vibrante e intenso, pieno di metafore, vivo ma ironico e talora umoristico, un testo altrimenti poetico, epico ed ironico su tutte le vite che ha attraversato.
Letteratura nordica
Iperborea
2020
256 p., brossura