La troga. L’eterno nero dell’Italia
Di Geraldine Meyer
Rileggere ora La troga, bellissimo libro di Giampaolo Rugarli, lascia addosso una sensazione di inquietudine e di meraviglia. Meraviglia per quella letteratura, alta e visionaria, che riesce a raccontare l’attuale dell’eterno. Inquietudine per un libro che, scritto nel 1988, appare quasi come la cronaca di questi anni, di questi giorni. Inquietudine che nasce dalla consapevolezza di vivere in un paese, il nostro, immobile nelle stesse sabbie mobili. Non è facile raccontare l’Italia, ancor più quando con una lingua tra il barocco e il sobrio, si narrano i suoi luoghi oscuri. Che sono culturali, sociali, politici. Che sono, verrebbe da dire, strutturali. Atavici. Sorretti da una forza che sembra sottesa e che tutto impregna di sé. Una forza oscura. Una troga, appunto.
Il libro comincia, con una coerenza drammaturgica che stupisce, con un commissario di polizia. Un grigio, un po’ anonimo commissario, Pantieri, che in un giorno qualunque (ma esistono giorni qualunque in Italia?) riceve la visita di una anziana donna che, apparentemente solo in preda a un delirio senile, lo mette in guardia. Da cosa? Da una misteriosa entità, forse organizzazione criminale, forse altro: la troga appunto. Pantiere derubrica tutto come parole senza senso di una anziana. Ma scoprirà presto che non è così.
Rugarli ci porta subito nel cuore delle cose. La troga, la toga, la tregua. Giochi linguistici diventano le allucinazioni di Pantieri che si trova al cospetto di quella parola come un’ombra sempre in agguato. Ma allucinazioni non sono. Sarà solo l’inizio di alcuni dei fatti più neri della storia d’Italia, dal rapimento Moro al terrorismo, dai giochi politici alle santificazioni dell’ambiguità, cosa tanto cara a una certa subcultura italica, dalle logge ai sequestri. Ma anche, ebbene sì, una misteriosa epidemia che trasforma Roma (paradigma dell’intero paese) in un lurido lazzaretto in cui la gente muore per strada, tra pioggia battente e monnezza. Una metafora, teatrale e iperbolica, di una nazione da sempre tenuta in scacco da una qualche forma di terrore, quale esso sia. Che non rivoluziona nulla ma, al contrario, rinserra le fila dell’immobilismo, del privilegio. Della troga.
La trama non è la cosa più importante di questo libro, uno dei più grandi della letteratura del ‘900. Qui, a far fare dei salti sulla sedia a chi legge, sono le profonde (furibonde, come disse Citati) immagini racchiuse in alcune frasi, o “la feroce allegria o allegra ferocia” di cui parlava Sciascia, entusiasta lettore del libro. Un lungo tratto di storia italiana, dipinto come un quadro surreale, metafisico eppure estremamente reale.
Un paese in cui nemmeno il terrorismo è stato un fenomeno “autentico” ma l’ipocrita messinscena del sistema stesso. Un sistema e un paese che ha sempre avuto bisogno di un nemico che, furbescamente, viene riassorbito per diventare un collante. E la colla è esattamente il vomito del nemico stesso. Lo dice molto chiaramente Rugarli quando scrive: “Una descrizione cruda, poco rassicurante ma aderente alla realtà. V’è una sintonia quasi perfetta tra governanti e governati. Vi è stato un punto in cui l’idillio minacciava di incrinarsi, ma poi, grazie a Dio, è intervenuto il terrorismo a rinsaldare gli antichi affetti. Il terrorismo ha salvato la democrazia.”
Un paese, quello raccontato ne La troga, che non sa nemmeno essere turpe e per questo motivo, la troga stessa “[…] intendeva restituire dignità al peccato, l’unica vittima di questi tempi turpi. […] Non fabbricavamo più peccati, ma volgarissimi delitti politici. Questo era ripugnante.” Rugarli, tra invenzioni linguistiche, dialetto calabrese, romanesco, tra politici e magistrati, terroristi e puttane, costruisce un palcoscenico che induce a ridere ma anche a provare disgusto. Per l’ipocrisia di questa nazione che mai è stata tale. In cui, come diceva il gattopardo, tutto cambia per non cambiare. Ed è ancora Rugarli a ricordarcelo: “Lo spirito del mondo era la transazione. Che ipocrisia puntare il dito accusatore contro il potere. Potere e società si specchiavano l’uno nell’altra. […] Il terrorismo…sì, ma non era che un foruncolo e persino un foruncolo salutare, consentiva lo spurgo di cattivi umori che, se non liberati, avrebbero potuto recare guasti maggiori. Le società insoddisfatte facevano le rivoluzioni, tutt’altro discorso.” Ecco, l’Italia, ci dice Rugarli, le rivoluzioni non le ha mai fatte perché, infondo, è sempre stata soddisfatta di sé. Soddisfatta di tutto, che tutto metabolizza e accetta, persino che la giustizia sia la maschera di altro: “La legge – dice qui un magistrato – è l’ombra pudica e ipocrita, de la voja di vendicasse de la società.” E poi, anche tra queste pagine, un’epidemia che è la strisciante paura di un paese senza redenzione. Un libro che andrebbe riscoperto oggi più che mai.
Gli Adelphi
Letteratura
Adelphi
2017 in questa collana
248 p., brossura