La fame. In una notte, il ricordo
Luca Morettini
Per molto tempo la triade musica-letteratura-cinema è stata al centro di tutto ciò che amavo e fondamentalmente è ancora così. Salvo che per il cinema, per il quale già da un po’ ho perso una certa dose d’interesse. Sembra paradossale, ma l’avvento delle piattaforme streaming è stata la causa della perdita della passione almeno per quel che riguarda le recenti produzioni. Troppo, troppo di tutto. Dalle serie tv ai film originali è un susseguirsi inarrestabile di prodotti che diventano un oceano di cose da seguire. Titoli che diventa obbligatorio conoscere per non rimanere indietro, tendenze su tendenze. Ne rimango parecchio scettico. Non m’interessa vedere qualcosa solo perché “è bello”, ho bisogno di sentire mia la storia, le vicende. E’ andata a finire che negli anni sono diventato molto selettivo. Rimango fedele alla mia “confort zone”. Ben vengano film e serie che parlano del punk, della guerra fredda e altri capisaldi che destano il mio entusiasmo. Il resto mi è indifferente.
Ma così facendo, spesso dimentico che anche le storie che riguardano tutt’altro possono essere avvincenti e magnetiche se la narrazione funziona. E ci è voluto un libro per ritrovare tale entusiasmo, capace di tenermi incollato alle sue pagine e a velocizzare lo scorrere delle righe pur di arrivare alla conclusione.
Edito da Scatole Parlanti, tale opera s’intitola La Fame, esordio di Matteo Tarasco. E’ la storia di Salvatore, un uomo che ha trascorso quasi quarant’anni in un manicomio. Ma la notte dell’11 luglio 1982, mentre il popolo italiano non riesce a trattenere le urla di gioia e di festa per la vittoria della Nazionale di Calcio Italiana che conquista il suo terzo titolo, durante quel celebre Mundial in cui sconfisse la Germania Ovest, lui non riesce più a trattenere il doloroso avvenimento che un lontano giorno del 1944 lo condusse in quello che, da allora, è stato ed è il suo inferno. Testimone di quelle inattese confidenze è la giovane psicologa Arianna che si vedrà coinvolgere in quel racconto tormentato fatto di guerra, miseria, campi da coltivare e tanta fame, molto di più di quanto il suo ruolo permetterebbe.
Benché esordiente sulla carta stampata Tarasco è drammaturgo e regista teatrale, ovvero una persona che conosce come raccontare una storia e dargli la giusta direzione per farla ben scorrere. La sua prosa è veloce ma estremamente incisiva. Ingloba il lettore e lo trascina all’interno del romanzo stesso. Basti solo leggere le parti in cui Salvatore racconta: lo abbiamo lì davanti, con il suo raccontare frenetico, agitato, contaminato da una dialettica figlia della povertà e di un tempo che fu, quando il mondo era confinato in qualche ettaro di terra da coltivare per conto di un padrone e il bestiame era vita. E il suo vissuto ci prende, ci colpisce e ci fa soffrire con lui facendoci del male. Ma è giusto che sia così.
La Fame è un fulmineo romanzo di dolore e sul dolore. Un dolore doppio, differente ma con il tratto della solitudine in comune: da una parte Salvatore, rinchiuso in manicomio pur non essendo matto che resiste ad anni di scosse elettriche, medicinali e ad un passato onnipresente che l’ha visto perdere tutto nel nome della disumanità e della follia e dall’altra Arianna, non più una psicologa ma un ponte per offrire una via di fuga ad un uomo stanco. Oltre che a sé stessa e allo spettro dell’assenza del padre.
Vorrei in realtà poter raccontare di più, ma troppi dettagli e parole rischierebbero d’incrinare quell’aura che si crea quando una storia va svelata lentamente. E questa ha bisogno che mantenga il mistero intatto, almeno fino a quando si alza la copertina del romanzo e si entra nella cella numero 5 in una sera di luglio del 1982. Dopo c’è solo il piacere della lettura, persino nel dolore.
Davvero niente male per un romanzo che non faceva parte della mia “confort zone.” Ma forse non esistono storie belle o brutte, esiste solo il modo in cui vengono raccontate. E lo stavo dimenticando.
Narrativa
Scatole Parlanti
2020
104 p., brossura