Ammutolimento, monito e colpa.
La morte per covid: dal rito privato alla celebrazione pubblica.
“In una ottica antropologica, la vita umana
non è mai ‘nuda vita’ finché é sorretta
da quei riti che fanno parte dei suoi portati culturali”
Fabio Dei
Di Stefano Vespo
- La morte dissacrata.
L’epidemia che stiamo vivendo ha assunto l’aspetto di una ossessiva presenza della morte, o piuttosto dei morti. Questa sarebbe una cosa naturale, dal momento che ogni epidemia si caratterizza per una dimestichezza quotidiana e ravvicinata con la morte. Tuttavia, la morte per Sars cov 2 ha una sua peculiare caratteristica: non appare mai ai nostri occhi, non si mostra nemmeno agli occhi dei parenti più intimi. I malati vengono sottratti alla loro vista, segregati negli ospedali, dove finiscono per morire in solitudine. Le tante storie drammatiche, le tante storie di confinamento e di abbandono diventano visibili a noi semplicemente sotto la forma astratta dei numeri: una serie sempre crescente di cifre che i mezzi d’informazione proclamano con toni allarmati nei bollettini serali.
Ma l’altro aspetto doloroso di queste morti, oltre alla loro sottrazione alle famiglie, è la loro sottrazione a qualsiasi rituale funebre. Sembra che per loro la morte si sia ridotta a un fatto puramente biologico, ad una ‘nuda morte’, spogliata dell’aspetto più fondante dell’umanità. Per comprendere che cosa significhi questa negazione del rito funebre bisogna riandare alle pagine di Ernesto De Martino in Morte e pianto rituale. “La perdita della persona cara è, nel modo più sporgente, l’esperienza di ciò che passa senza e contro di noi: ed in corrispondenza a questo patire noi siamo chiamati nel modo più perentorio all’aspra fatica di farci coraggiosamente procuratori di morte, in noi e con noi, dei nostri morti, sollevandoci dallo strazio […] a quel ‘saper’ piangere che, mediante l’oggettivazione asciuga il pianto e ridischiude alla vita e al valore” (1). Il lutto, la perdita rappresentano per chi resta una sfida immane, e il rito funebre è la forma che l’umanità ha adottato per superare lo strazio, renderlo oggettivo. Il lutto, il cordoglio, il rito funebre è il modo con il quale il fatto brutale e naturale della morte, una morte che agisce esternamente a noi, che ci priva di qualsiasi valore, viene trasformato in fatto culturale, in valore umano. Il rito è “l’aspra fatica di far morire i nostri morti in noi” come scriveva Benedetto Croce nei Frammenti di etica. Anche il contatto con il corpo del familiare, la sua preparazione, la sua tumulazione, assume una funzione straordinaria nell’elaborazione del lutto. Tuttavia, le stesse salme sono state negate, sono state letteralmente rubate al dolore dei familiari, sono state ridotte in cenere.
Eppure, il semplice numero astratto dei morti, sebbene così privato di ogni valore umano, assume una potenza straordinaria su noi. Questi morti “dissacrati”, nonostante tutto, hanno il paradossale potere di annullare ogni nostra remora, di spegnere ogni volontà di protesta.
L’argomento dei numeri in costante aumento ha la forza e l’indiscutibilità di una parola conclusiva: il numero dei morti non ammette alcuna replica. È questo l’argomento ultimo, di fronte al quale si è costretti ad ammutolire. Questo numero non ammette repliche. Di fronte ad un simile argomento crollano tutti i dubbi, tutte le possibili critiche, tutte le lamentele per la perdita della libertà, del benessere economico, del diritto all’istruzione.
Ammutoliamo e abbassiamo la testa: cosa c’è di più indiscutibile della morte?
- Dal rituale privato al rituale collettivo: la negazione dell’individuo.
Il fatto è che, sottratti al rituale privato, familiare, individuale, i morti per il virus hanno avuto accesso ad un altro tipo di rituale: un rituale pubblico, collettivo, impersonale. È proprio in questo passaggio che risiede la loro forza persuasiva. E bisogna osservare che mai come in questo periodo vi è stata una inclinazione così forte della politica alle celebrazioni pubbliche.
L’immagine che con più tenacia si è fissata nella memoria collettiva degli Italiani, divenendo il simbolo che esprime per molti l’esperienza emotiva della pandemia, è una lunga fila di carri militari che alle nove di sera del 18 Marzo 2020 trasportava, lungo le strade di una Bergamo deserta, una sessantina di bare. In queste erano stati deposti i corpi di alcuni tra i deceduti a causa della Sars cov 2. Si trattava di corpi destinati alla cremazione nelle strutture di altre regioni, dal momento che il forno crematorio del cimitero di Bergamo era ormai insufficiente.
Un’immagine potente, che ha riassunto per i telespettatori italiani il dramma della provincia di Bergamo nei primi mesi dell’epidemia.Un’immagine che rievoca uno scenario di guerra, fatto di eroismi, di sacrifici. Un’immagine che rinforza il modello encomiastico e celebrativo che i media continuamente proiettano sulla realtà. E quasi come ‘eroi’ di una guerra sono state trattate dalla retorica dei giornali e della politica quelle vittime, sottratte all’affetto dei familiari nel momento del trapasso, private del rito funebre, private della loro identità.
A ricordo di quanto avvenuto nella provincia di Bergamo nel mese di marzo del 2020 il Parlamento italiano ha istituito infatti una giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid. La prima celebrazione è avvenuta nel 2021 nel cimitero monumentale di Bergamo, con l’inaugurazione del Bosco della memoria.
Una celebrazione e un rituale che convertono quei morti in vittime di una guerra, quasi si trattasse dei caduti di un conflitto, trasferendo nella gestione dell’epidemia i toni e gli ideali nazionalistici. La loro morte si trasforma in sacrificio patriottico. Rivitalizzare questo immaginario in un evento pubblico non è certo il modo migliore per risarcire i familiari del rito funebre mancato. La celebrazione pubblica ha significato infatti abolire completamente e definitivamente il contatto con l’individualità della perdita, del dolore.
Le vittime divengono i caduti di una guerra, gli eroi. Anche se a rigor di logica la “guerra” attuale dovrebbe avere lo scopo di evitare tali sacrifici. Tuttavia, la retorica nazionalistica è stata ampiamente rispolverata in quest’ultimo anno anche in altri contesti.
Così, la morte, dopo aver perduto ogni concretezza, ogni visibilità, è stata riassunta in un cerimoniale astratto, un rito di Stato, che cancella ogni identità del singolo.
Ma una volta che vengono assunti all’interno di questo rituale collettivo patriottico, ecco che la massa dei morti si trasforma in un monito. Un monito rivolto all’intera popolazione: un invito a obbedire alle regole, a non rendere vana la loro morte, a non aggiungere altre vittime. È questo l’elemento più forte che spiega il nostro ammutolire di fronte al loro numero.
I morti sono un monito che emerge continuamente ogni volta che ne apprendiamo il loro numero.
Ma al monito si unisce anche la colpa. Un senso di colpa che si fonda su un atavico timore: quello provato per coloro che hanno dovuto rinunciare ad una vita nella quale invece noi continuiamo a rimanere. Così la ritualità pubblica, intrisa di quel monito, recupera anche l’ancestrale senso di timore nei confronti dei morti. Essi rappresentano in ogni cultura una presenza minacciosa. “Ciò che spicca innanzitutto e comunque è il timore dei morti. Essi sono scontenti e pieni d’invidia verso i familiari che hanno lasciato dietro di sé. L’invidia dei morti è ciò che i vivi temono di più”. Così scrive Elias Canetti in Massa e Potere. “I riti funebri avevano [in molte culture] un duplice scopo: da un lato dovevano proteggere i vivi dall’azione dei morti, d’altro lato dovevano assicurare una sopravvivenza alle anime dei morti” (3).
Ecco che l’argomento dei morti assume una indiscutibilità e sacralità che spesso impedisce una analisi più lucida. Analisi resa ancora più difficile da un problema non solo italiano: la difficoltà di accedere ai dati sui contagi, sui ricoveri e sui decessi. Un problema veramente serio, dal momento che tutte le decisioni prese dai governi si dovrebbero basare su quei dati.
La ritualizzazione ha anche l’effetto di coprire tutte le incertezze e i sospetti che gravano sulle vittime. Assumendoli come martiri, come eroi sacrificati per tutti noi, si svia l’attenzione dalle cause che li hanno condotti ad essere vittime: piuttosto che elogiare il loro “sacrificio”, proprio la loro morte era ciò che si sarebbe dovuto evitare.
- La consistenza dei numeri.
Dietro i rituali collettivi si nasconde quasi sempre una realtà molto diversa, molto più prosaica. Nel mese di Settembre del 2020 alcune inchieste giudiziarie hanno portato alla luce la reale consistenza dei dati relativi ai fatti accaduti a Bergamo nel marzo del 2020. L’Ats di Bergamo, dietro richiesta del Tar, ha messo a disposizione i numeri relativi ai decessi nelle Rsa, che nel solo mese di marzo sono stati 1308, rispetto ad una media di 163 nello stesso periodo. Un eccesso di più di mille deceduti, ammesso che i dati siano completi, riconducibili senz’altro al virus. Nell’inchiesta è messa sotto accusa la disposizione dell’8 Marzo della regione Lombardia, che trasferiva 260 pazienti positivi alla Sars cov 2 in 11 Rsa del territorio. Considerando che la mortalità dovuta al covid in quel mese nella provincia di Bergamo è stata di 2346 casi (ma il numero è sottostimato, perché si parla complessivamente di circa 5000 decessi in più rispetto alla mediadello stesso periodo), l’incidenza della delibera regionale sul disastro non dev’essere stata di poco conto.
I numeri hanno l’effetto di ammutolirci. Ma cosa viene occultato dietro la loro evidenza marmorea, dietro il loro monito? Oggi abbiamo i dati dell’Istat del 2020. Nel rapporto si registrano circa 100.000 decessi in più rispetto alla media degli scorsi cinque anni. Questo dato dovrebbe confermare gli oltre 70.000 morti di covid segnalati dall’Iss nel 2020. Tuttavia, questi numeri, presi così, non dicono nulla. Molto più interessante è consultare i grafici interattivi dell’Istat, in cui si analizza la distribuzione dei decessi per fascia d’età (4).
Tale schema registra che circa 82.000 di questi ha riguardato persone dai settantacinque anni in su, mentre i decessi di persone con meno di cinquantacinque anni è addirittura lievemente inferiore alla media dei decessi del quinquennio precedente. Un elemento che dovrebbe far riflettere: il covid ha colpito le fasce d’età più a rischio, i pazienti più fragili, quelli per i quali una efficace assistenza medica sarebbe stata essenziale, vitale.
Di fronte a questo, bisogna porsi almeno una domanda: quanto ha influito il virus su tale aumento di morti? quanto hanno influito invece il panico innescato dall’informazione, lo smantellamento di interi reparti d’ospedali, i protocolli sanitari assolutamente inappropriati?
Già nel Maggio del 2020 la Società Italiana di Cardiologia (5) segnalava che i casi di decessi per tali malattie erano triplicati: il timore di accedere agli ospedali per paura del contagio e la creazione di reparti covid, per fare spazio ai quali erano stati smantellati altri reparti essenziali, erano segnalati come le cause principali di tale aumento. Un fatto che ha avuto una ricaduta sulle fasce d’età più alte, nelle quali le patologie cardiovascolari sono più diffuse (6).
A questo si aggiungono i protocolli di cura che, ancora oggi, prevedono la vigile attesa e la somministrazione di tachipirina, protocolli che in molti casi hanno provocato aggravamenti e ricoveri in ospedale, come ha ampiamente dimostrato lo studio condotto dal Prof. Remuzzi dell’istituto Mario Negri di Bergamo(7). Una cura domiciliare tempestiva a base di antinfiammatori ha ridotto del 90% circa i ricoveri e ha salvato molte vite, soprattutto quelle di pazienti fragili di età avanzata.
Cosa dire poi del ricovero di molti pazienti affetti da covid nelle RSA? È stato come gettare un cerino in un pagliaio. Eppure, questa sembra essere stata, a quanto sostiene il governatore Fontana, sotto processo per questo motivo, una decisione presa da molte altre giunte regionali italiane: quasi una sorta protocollo operativo. Sembra anzi essere stato adottato anche in altri paesi europei (8). Interessante segnalare che anche Cuomo si trova ad affrontare un procedimento legale per gli stessi motivi di Fontana (9).
In ultimo, il conteggio dei decessi mette insieme sia i morti per covid che i morti per altre cause, ma risultati comunque positivi al covid. L’Iss sostiene che si tratterebbe di una percentuale del 10% circa. Probabilmente perché i dati sulle malattie pregresse dei deceduti riguarda solo meno del 10% di questi. Tuttavia, uno studio condotto negli Stati Uniti ha rivelato che una tale modalità di registrazione, imposta anche lì proprio a partire da marzo 2020, ha fatto aumentare enormemente il numero dei decessi dovuti alla Sarscov 2: un buon 90% di decessi in più, rispetto a quelli che si registrerebbero calcolando solo i decessi in cui causa diretta è il virus(10).
Certo, sono solo dei sospetti. Al momento ricercatori e scienziati hanno accesso solo in modo molto limitato ai dati (11). Ma il recente ricorso del Ministero della Salute e dell’AIFA contro la sospensione da parte del Tar del protocollo che prevede la vigile attesa e il paracetamolo (12); il sostanziale rifiuto, nel nuovo protocollo di cura, dell’esperienza della cura domiciliare, non fanno che aumentare i sospetti.
Note
1. Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale, Einaudi, 2021, p.44.
2. Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi 2016, p. 316.
3. Ibid., p. 326
6. https://www.degasperis.it/malattie-cardiovascolari-prima-causa-di-morte-in-italia.html
7. https://www.marionegri.it/magazine/covid-19-cure-domiciliari
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/indagini-su-case-di-riposo-in-lombardia
10. https://comedonchisciotte.org/spiegazione-dei-numeri-fasulli-di-decessi-covid/
11. E’presente su internet l’appello di Dati Bene Comune per un libero accesso ai dati della pandemia. 12. https://www.sanitainformazione.it/omceo-enti-territori/terapia-domiciliare-covid-ministero-ricorre-contro-sentenza-tar-il-comitato-ricorso-in-appello-va-contro-voto-del-senato/
L’immagine di copertina è Danza e trionfo della morte, nell’oratorio dei Disciplinati di Clusone. La foto è presa da wikipedia.