Genova per noi
Di Geraldine Meyer
Gino Paoli definiva Genova, in una delle sue canzoni, “città intestinale”. Due parole che, tra le pagine di questo La Superba dell’olandese Ilja Leonard Pfeijffer, si ripresentano quasi come una lanterna a illuminare la lettura. E di fatti questo bellissimo (e splendidamente tradotto) libro, di rumori e umori di ventre (e basso ventre) rigurgita. Come le parole e lo stile con cui lo scrittore ci consegna un romanzo che è un po’ memoire, un po’ diario e un po’ pantagruelico risuonare di sesso, sogno, vagabondare da flaneur. Tutto attorno, in mezzo, sopra, sotto, ovunque, Genova, i suoi vicoli, i suoi odori, le sue piazzette, le sue puttane e i suoi immigrati.
Pfeijffer, che a Genova arrivò per caso, nel 2008, in bicicletta, ci racconta di quello che, in fondo, è un equivoco, una bella bugia. Ciò che accomuna, pur nella diversità delle esperienze, chiunque pensi di realizzare un sogno andando a vivere in un luogo che non è quello in cui è nato. Un altrove che, di volta in volta è La Merica, oppure un sud pensato e cullato come una terra dall’eterno sole oppure un’Europa in cui si diventa ricchi riscattando una vita di miseria e ingiustizie.
Ecco. Per questo La Superba da narrazione di una scelta di vita per l’autore, diviene inevitabilmente un libro sull’emigrazione e sull’immigrazione. Inevitabilmente perché Genova, città di mare e di macaia, racconta per sua stessa natura, un sogno di un altro luogo, di una terra “vergine” in cui la verginità di una nuova vita è resa possibile proprio dal suo aver aperto le gambe a tutti.
Così il racconto dello straniero Pfeijffer si intreccia a quello di Djiby e del suo inferno dal Senegal alla Libia e a quello di Donald Perrygrove Sinclair, squattrinato improbabile ex agente segreto, ex professore, anche lui alle prese con un suo personale inferno. Tutti accomunati dall’essere comunque stranieri, in una perenne e impossibile vera integrazione. Per ciascuno Genova è seduzione e respingimento, accoglienza e sdegnosa voltata di spalle. Un luogo raggiunto ma mai posseduto.
Pfeijffer osserva, seduto ai tavolini dei bar, un’umanità varia e dolente, cinica e malinconica, folle e potente, impegnata a recitare una parte, qualunque essa sia, in un eterno copione di arrivi e partenze. Tra affari mai realizzati, il velleitario progetto di rimettere in funzione un teatro fuori uso da tempo, amori sognati e stropicciati, chiacchierate bevendo mentre il mare si fa sentire anche quando non lo vedi, riportando l’idea di un movimento perenne, Genova è lì. Bella da impazzire quando la vedi arrivando dall’autostrada, imprendibile per quanto tu possa consumare le scarpe vagando per i suoi vicoli. Ciascuno un mondo. Che forse non esiste, come il Vicolo dei Librai e la misteriosa vecchia (forse un fantasma) che chiede come arrivarci. O come la ragazza più bella della città o la gamba trovata in un vicolo.
Genova come metafora di una ricerca destinata comunque a non realizzarsi mai fino in fondo ma, comunque, foriera di vitale eppur sconfitta umanità. Sconfitta come colui che scrive perché, a pensarci bene, anche lui è schiavo di una fantasia, come Rashid, immigrato marocchino che a Genova vende rose di sera. Ma anche metafora dell’atto stesso di scrivere. Sempre mancante. Perché, come scrive Pfeijffer: “Se Genova fosse veramente così eccezionale come sostengo, non ne sapresti niente amico mio. Tutto ciò che scrivo è falso, perché quando sono me stesso non scrivo. È una fuga dalla realtà sulla zattera traballante del linguaggio, come le navi che andavano alla Merica, come i poveracci che vengono in Europa, la terra promessa”.
Letteratura
Nutrimenti
2018
335 p., brossura