I baffi. Tagliarli quasi come forma di tradimento
Di Anita Mancia
Carrère è un autore molto ben rappresentato e tradotto da Adelphi che ha pubblicato ben nove titoli, ma questo esile romanzo, I baffi, è molto sorprendente.
Il protagonista, marito di Agnès, un giorno decide di tagliarsi i baffi, una cosa normale. La moglie gli risponde che sarebbe una buona idea. L’autore descrive tutta l’operazione che sarà poi ripetuta in diversi contesti e in uno stato di ansia più o meno contenuta dal protagonista: «Con la foga gioiosa di chi incarta un regalo all’ultimo momento, stese la crema da barba sulla zona da tosare. Il rasoio stridette, strappandogli una smorfia; eppure non si era tagliato. Caddero nella vasca altri fiocchi di schiuma, anche questi picchiettati di peli neri, ma molto più numerosi di prima. Ci ripassò sopra due volte. In breve tempo il labbro superiore fu ancora più liscio delle guance, un ottimo lavoro» 12-13. Tuttavia era preoccupato dalla reazione che avrebbe manifestato sua moglie, quasi che rincasasse dopo una notte passata a tradirla. Qui il lettore vede che l’uomo dava ai suoi baffi ed alla sua apparenza una certa importanza, anzi, una notevole importanza, se quasi paragona il taglio dei baffi ad un tradimento possibile. Il ritorno della moglie avviene in un momento di distrazione, quando la stringa di una scarpa gli si era rotta. (molto ben fatto questo cambio di registro dell’attenzione). I due coniugi vanno a fare una visita ai loro amici, Serge e Véronique. Ma né durante il percorso per andare a trovarli, né quando giungono a casa loro, il cambiamento di aspetto del marito di Agnès suscita una reazione. Così egli torna a riflettere sulla moglie: «Agnès aveva perfino detto, ridendo, che sarebbe stata una buona idea. Ma erano soltanto parole, una finta risposta a ciò che, nella sua testa, ancora non era che una finta domanda. Impossibile immaginare che l’avesse preso sul serio, che avesse fatto la spesa dicendosi: si sta radendo i baffi, quando lo vedo dovrò fare come se niente fosse. D’altra parte, se non se l’aspettava, il sangue freddo di cui aveva dato prova era ancora meno credibile. Comunque sia, concluse, tanto di cappello, brava» 17. L’uomo ammette la bravura della moglie e forse ritiene che possa essersi messa in combutta con i suoi amici dai quali avrebbe preteso lo stesso comportamento. Per farla breve la questione dei baffi diventa una questione vitale, che coinvolge anche Serge e Véronique: «Serge e Véronique furono all’altezza. Niente occhiate insistenti, né discrezione ostentata: lo guardavano in faccia esattamente come al solito» 19. Ed è appunto questo che disturba il marito di Agnès fino a fargli credere, addirittura, di essere stato coinvolto in un complotto architettato dalla moglie. Era innamorato di lei, ma sconcertato che la storia dei baffi potesse andare avanti alla lunga. Agnès propone una tregua, che il marito, benchè preoccupato e irritato, accetta. Tuttavia la storia dei baffi non finisce certo, anzi, continua: «”Che cos’è questa storia di baffi?” Agnès, mormorò, “Agnès, li ho rasati. Non è grave, ricresceranno. Guardami, Agnès. Che cosa succede?” Ripeteva ogni parola, piano, quasi canticchiando e intanto la accarezzava, ma lei si scostò di nuovo, con gli occhi sgranati, come in macchina, la stessa progressione» 26. Ed è la progressione, il ritmo veloce che caratterizza questa storia. La moglie nega che il marito avesse mai avuto i baffi. Questa situazione paradossale mette in moto tutto il rapporto fra marito e moglie al punto che Agnès pronuncia la frase «”Tu sei pazzo”. Sibilò. “Completamente pazzo”» 27. A questo punto si aprono due strade: o ammettere la follìa della moglie e farla visitare da uno psichiatra che sia un medico capace di darle medicine, o ammettere la sua follìa e farsi sempre visitare da uno psichiatra. Chi è il malato dei due? Su queste possibilità si sviluppa la prima parte del romanzo, esile in sé perché la storia lo è, fino al punto che gli amici Serge e Véronique danno loro il nome di uno psichiatra, il dottor Kalenka, che ha aiutato Véronique a guarire dalla sua anorressia.
L’atto di radersi viene ripetuto svariatissime volte dal marito di Agnès ed è carico di significati, un mezzo di riflessione ed un mezzo che esprime tutta l’angoscia interiore dell’uomo: «Nella vasca rifletté. Senza provare vero rancore nei suoi confronti, faticava a capire l’ostinazione con cui Agnès perseverava in una messinscena la cui comicità, onestamente, si era esaurita nel giro di cinque minuti. Certo, come le aveva detto, gli scherzi demenziali erano una delle sue specialità… Ad Agnès, come a tutti, capitava di ricorrere a piccole bugie interessate, per scusarsi di non poter andare a una cena o di non aver finito un lavoro in tempo, ma anziché dire per esempio che era malata, che le si era rotta la macchina o che aveva perso l’agenda, difendeva con una convinzione assolutamente sproporzionata non tanto degli argomenti farlocchi e però verosimili, ma delle palesi controverità» 33. Qui c’è una disamina profonda del carattere di Agnès che dà adito a pensare ad elementi degni di un esame psicologico-psicoanalitico: «Sapeva benissimo che c’erano due Agnès: una socievole, brillante, sempre nel personaggio, i cui grilli, il cui comportamento imprevedibile finivano col sedurre per la loro naturalezza e, anche se non lo ammetteva, lo rendevano assai fiero di lei; l’altra era il solo a conoscerla, fragile e inquieta, e gelosa anche, capace di scoppiare in lacrime per un nonnulla, di accoccolarsi tra le sue braccia, e che lui consolava. In quei momenti lei tirava fuori l’altra sua voce, esitante, quasi leziosa, che in pubblico l’avrebbe irritato ma nell’intimità della coppia testimoniava un abbandono sconvolgente» 35-36. Dunque Agnès aveva due voci. Ora era accaduto appunto questo: un elemento che apparteneva alla sfera pubblica era stato introdotto nella sfera protetta e questo lo aveva disturbato. Dunque una analisi psicologica fine caratterizza questo esile romanzo, che esile non è dal punto di vista del contenuto. Intanto i baffi andavano ricrescendo, per rimanere all’aspetto esteriore: «Guardandosi allo specchio, tastandosi, vedeva il labbro superiore ornato di una vivace peluria, quella di un uomo non rasato, non ancora baffuto, il che forse non era bello a vedersi ma apparentemente era riconosciuto da tutti, e questo lo rassicurava. Cominciava perfino a pensare che il caso avrebbe potuto chiudersi lì, che non era necessario andare da uno psichiatra: bastava, per quel che concerneva i suoi ex baffi, aderire a quella che sembrava essere l’opinione generale, e non parlarne più» 54. Ma invece se ne parla e la questione dei baffi diventa un circolo vizioso. Quando chiede alla moglie dove siano finite le foto di Giava, quelle in cui lui aveva i baffi, questa nega che loro siano mai andati a Giava. La svolta sul tema della pazzia, avviene a pagina 80 quando il socio per l’agenzia di architettura nella quale lavorava, gli dice che lui non ha mai avuto i baffi. Così Jerôme gli consiglia uno psichiatra perché ha delle allucinazioni. Il pazzo, che non ricorda neppure che suo padre è morto, è lui. Per evitare di cadere nelle mani del dottor Kalenka, lo psichiatra consigliato dai suoi amici, l’uomo si dà alla fuga. Questa, della fuga rocambolesca è forse la parte più attraente e avvincente del romanzo. L’uomo fugge da se stesso e si ritrova su un traghetto che collega Kowloon a Hong Kong: «Il traghetto gli piaceva, gli era piaciuto subito perché offriva un contesto alle sue esitazioni pendolari, perché bastava avere spiccioli a sufficienza per sposarne il movimento, esitare, ribellarsi, pur senza passare all’atto. Perché una volta scelta l’unica azione sensata, saper fuggire in capo al mondo, tutto stava nel rimanerci, non muoversi più, smettere di agire, limitando al solo pensiero l’esecuzione del movimento contrario. Fuori del traghetto, che si faceva carico di lui, il mondo non si opponeva abbastanza alle sue velleità. Sarebbe stato necessario poter tagliare i ponti, mettersi in una situazione materiale o fisica tale che il ritorno gli fosse per sempre impedito» 121. Questa riflessione è molto interessante. Il protagonista della storia preferisce una vita oscillante, senza decidere nulla tranne la ripetizione dell’oscillazione, piuttosto che decidersi a compiere una decisione, per esempio tornare. Essere tagliato dal mondo di prima, di Parigi e rimanere a Hong Kong è quello cui anela: «piuttosto che la cella d’isolamento, mille volte meglio la dilazione ripetitiva, triste ma scelta liberamente, della vita sul traghetto. Non tornare mai più, scacciare la tentazione, rimanere nascosto come il testimone che la mafia deve eliminare. Doveva far capire ad Agnès quella necessità: la sua scomparsa non era un capriccio, ma un obbligo vitale; bisognava che, da lontano, senza cercare di rivederlo, lei lo aiutasse a cavarsela il meno peggio possibile» 120. Dunque quello cui anela è sparire e non essere preso nel cerchio infernale del dottor Kalenka. Riuscirà a realizzare il suo desiderio? Il lettore lo vedrà da sé in una frenetica, rapida quanto assolutamente sorprendente conclusione di un romanzo che si era aperto su un tono leggero, quasi di scherzo, e che termina invece nel suo opposto. Ma comunque certamente un bel romanzo, profondo nello scandagliare la dimensione psicologica delle azioni umane.
Letteratura
Adelphi
2020
149 p., Brossura