Il potere della parola e la superiorità dell’intelletto in alcune novelle del Decameron.
Di Graziella Enna
Tra i temi più rilevanti trattati nel Decameron spicca la forza straordinaria dell’eloquenza che in moltissime occorrenze della vita, soprattutto se accompagnata da intelligenza e fine umorismo, può risolvere situazioni incresciose e intricate, persino salvare la vita. Boccaccio si è ispirato per la predilezione dei motti di spirito oltre che alla tradizione di novellieri e predicatori medievali anche a Cicerone, che dedica alle facezie una sezione del “De oratore”, (intitolata “De ridiculis”), inserendo originalmente questa materia nella parte più importante e creativa dell’arte oratoria, l’inventio, cioè la ricerca degli argomenti da trattare.. In questo modo dimostra il valore e l’utilità dell’umorismo e lo rende degno di essere incluso nella formazione del perfetto oratore. In alcuni passi del II libro afferma infatti:
[244] Il ridicolo basato sulle parole è quello provocato da una certa acutezza di parole o di pensieri;
[247] La tempestività, il garbo e la moderazione dell’arguzia uniti alla sobrietà dei frizzi distinguono l’oratore dal buffone, un altro elemento di distinzione è rappresentato dal fatto che l’oratore si serve dell’arguzia quando c’è una ragione, non per apparire spiritoso, ma per trarne qualche vantaggio, mentre il buffone lo fa in continuazione e senza un valido motivo. [..] Dobbiamo usare saggezza e prudenza, per saper cogliere il momento giusto per un’arguzia.
Tornando a Boccaccio, si possono prendere in esame le seguenti brevi novelle sulla suddetta tematica, sebbene la scelta offerta all’interno dell’opera sia molto variegata e dunque ardua.
Una, brevissima, (la prima della VI giornata, dedicata ai motti di spirito), e’ intitolata “Madonna Oretta”. Un’allegra brigata di amici, dopo aver consumato un lauto banchetto a casa di Geri Spina e della sua consorte Oretta, famosa per la sua fine loquela e il suo innato buongusto, decidono di dirigersi verso un’amena località per svagarsi. Durante il tragitto, che era piuttosto lungo, un cavaliere, ospite della signora, per ingraziarsi siffatta dama, decide di narrarle una storia avvincente, a suo dire, e le promette che nell’udirla le sarebbe sembrato di andare a cavallo ed arrivare in un batter d’occhio a destinazione. Ma l’uomo si dimostra un narratore maldestro, confusionario, smemorato, privo di filo logico, di intonazione, per cui espone un guazzabuglio incomprensibile. La buona donna, che era gentile e garbata, ma forse spazientita dopo cotale sproloquio, vedendo il novellatore così impantanato, presa da freddi sudori gli dice che il trotto del suo cavallo la sta scombussolando un po’ troppo e avrebbe perciò proseguito a piedi. Il cavaliere sembra aver capito la battuta e la butta sul ridere, lascia perdere quella storia e ne inizia altre, ma ahimè alla rinfusa peggio di prima.
La metafora del cavallo ha colpito così tanto i lettori di ogni tempo, che nell’iconografia i due protagonisti vengono rappresentati a cavallo fino a far dimenticare che in realtà sono a piedi.
Calvino nelle sue magnifiche “Lezioni americane” a proposito del tema “Rapidità” compendia così i difetti dell’incapace narratore:
“La novella è un cavallo: un mezzo di trasporto, con una sua andatura, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere, ma la velocità di cui si parla è una velocità mentale. I difetti del narratore maldestro enumerati da Boccaccio sono soprattutto offese al ritmo; oltre a difetti di stile, perché non usa le espressioni appropriate ai personaggi e alle azioni, cioè a ben vedere anche nella proprietà stilistica si tratta di prontezza di adattamento, agilità dell’espressione e del pensiero.”
La narrazione del cavaliere e’ insopportabile per Oretta e ciò, come rimarca Calvino, dimostra che non e’ mai facile il rapporto tra memoria e parola e neppure quello tra narrazione e diletto. La novella ha anche un’altra valenza nell’opera, cioè Boccaccio vuole ricordare le regole che i novellatori stabiliscono all’inizio ovvero che si deve sempre avere un ordine nella narrazione per garantire piacere al pubblico e perché l’uso accorto della parola può anche salvare la vita, in pratica un monito espresso con una novella. Raccontare novelle mentre si viaggia riflette poi una tradizione medievale, (basti pensare ai “Canterbury tales” di Chaucer) e affonda le radici anche in Cicerone, che, nel “De oratore”, usa metaforicamente il racconto come viaggio. Ecco i passi del libro II in cui si affronta questo tema:
[234] Ora, ascoltiamo te, o Cesare, per potere poi ascoltare il resto del discorso di Antonio. E Antonio: in verità mi resta poco, come sono stanco del faticoso cammino del mio discorso, mi riposerà nel discorso di Cesare come in un comodissimo albergo.
La parola viaggio viene associata alla fatica di narrare un discorso. Qui il viaggio avviene nella mente del narratore che s’immagina il suo racconto è quindi non è fisico ma mentale, tuttavia provoca stanchezza. L’intervento di Cesare dà la possibilità ad Antonio di riposarsi e di distrarsi un momento.
Anche in un altro passo il viaggio è una metafora per il racconto e mettersi in cammino indica l’azione del raccontare, inclusi gli sforzi mentali. Cesare dice alla fine del suo discorso:
[290 ] Ma tu Antonio, avevi dichiarato che volentieri avresti trovato un po’ di riposo in questo mio discorso come in un albergo durante un viaggio. Ebbene, fai conto di esserti fermato a sostare in un luogo né ameno né salubre, come l’agro Pontino; sicché puoi dire d’aver riposato abbastanza, mi pare, e rimetterti in cammino per completare il tuo viaggio “.
Il discorso di Cesare ha una simile funzione che dovrebbe avere la novella del cavaliere che accompagna madonna Oretta. I due interventi di Cesare e del cavaliere aiutano i destinatari a distrarsi dalla fatica del loro viaggio; come detto, quello di Antonio è un viaggio mentale, immaginato, quello di madonna Oretta è un viaggio vero è proprio. Per la sua dappocaggine il cavaliere però non riesce nell’intento, anzi mette in disagio madonna Oretta.
Un’altra novella che si potrebbe associare alla precedente, chiude la prima giornata del Decameron: è quella di Maestro Alberto da Bologna, un saggio medico in età avanzata. Spente ormai in lui le fiamme della passione, il suo animo nobile si innamora perdutamente di una bellissima donna vedova, Margherita. Pur di vederla, inizia a percorrere la via davanti alla sua casa a piedi o a cavallo. Un giorno la donna e alcune sue amiche decisero di invitarlo per prendersi gioco di lui e dopo averlo accolto e deliziato con vini raffinati e dolcetti, gli chiedono come sia possibile che sia innamorato della bella donna pur sapendo che ha tanti corteggiatori giovani e di bell’aspetto. Il maestro, sentendosi punto nel vivo, coglie la sfida e con cortesi parole risponde che, sebbene sia privo delle forze fisiche necessarie all’amore fisico, non per questo gli è stata tolta la volontà di amare e capire chi meriti il suo amore, del resto le donne spesso, spinte dagli appetiti mangiano i porri divorando prima le foglie insapori e gettando via le parti migliori, allo stesso modo potrebbero adottare tale principio nella scelta di chi amare. Se così lei facesse, sceglierebbe senza dubbio lui e allontanerebbe gli altri. La donna e le amiche compresero così di aver ricevuto una lezione e un ammonimento. In queste due novelle pertanto si può riscontrare una struttura chiastica in cui si invertono i ruoli, nel primo caso è l’uomo a essere ripreso da una gentildonna, nel secondo è una donna che viene punita da un uomo di nobile spirito, in entrambi i casi è la potenza della parola ad avere la meglio. Anche un altro aspetto è rilevante: le risposte argute sono in entrambe le novelle misurate e sobrie e sia Madonna Oretta che maestro Alberto mostrano anche la capacità di tacere garbatamente prima di palesare i loro cortesi motti di spirito.
Un’altra figura femminile che mostra fine arte retorica unita a un’incredibile capacità di autodifesa, è Madonna Filippa (VI giornata, 7). Grazie alla sua abilità e alla sua sagacia si salva da un’ingiusta condanna a morte. Sorpresa dal marito con l’amante, viene condotta in giudizio dall’uomo per la sete di rivalsa e per l’onore ferito. Infatti egli non osa affrontare il rivale e subire una condanna in caso di ferimento, preferisce affidarsi a leggi ingiuste per infliggere una pena alla moglie. Secondo le leggi vigenti nella città di Prato, le adultere dovevano essere condotte al rogo. La donna pronuncia la sua difesa, con calma, onestà e pacatezza, ammettendo la sua colpa di essere giaciuta con l’amante, ma ribadendo di non aver mai trascurato gli obblighi coniugali con il marito a cui aveva sempre concesso gran copia di sé. Il marito annuisce e afferma che ciò corrisponde a verità, per cui la donna prosegue dicendo che, una volta soddisfatti i desideri del marito, utilizza tutte le risorse rimanenti per il suo amante dal momento che lo ama profondamente e sinceramente. Insomma, rimarca, perché gettare via tanto amore, visto che è un istinto naturale e insopprimibile e, oltretutto, donato con spontaneità? La sua risposta suscita ilarità ma anche un coro di consensi per cui la donna viene liberata all’unanimità e torna a casa gloriosa. In questa novella pertanto viene ribadito da parte della donna il suo diritto ad amare: ella, in un climax ascendente, ammette la propria colpa, dimostra l’iniquità della legge fatta senza il consenso delle donne, (che applicata genererebbe una palese ingiustizia), infine prova che le leggi degli uomini sono contrarie a quelle di natura. La donna appare così molto più coraggiosa del marito e non teme la condanna e la morte, anzi, perorando la sua causa, fornisce prove a tutti i concittadini di una legge ingiusta che deve essere corretta. Il marito Rinaldo torna così a casa confuso e messo in ridicolo soprattutto per aver messo in piazza i propri fatti personali, fatto ancora più deprecabile nella vicenda del tradimento. Boccaccio rovescia in tal modo la concezione antiquata e retrograda della donna e ne afferma il diritto a vivere intensamente la vita e amare liberamente, fatto già evidenziato nella dedica del Decameron e in moltissime altre novelle.
In un’altra celebre novella, (VI giornata, 9), Boccaccio ci presenta Guido Cavalcanti, guelfo bianco, noto non solo per la sua fama di poeta ma anche per i suoi studi filosofici. Nella Firenze dei tempi di Guido in tutte le contrade, si formavano allegre brigate di giovani di buona famiglia, buontemponi e dediti a banchetti, cavalcate, tornei d’armi. Tra le varie adunanze, una in particolare capeggiata da Betto Brunelleschi, esponente dei guelfi neri, tenta invano di coinvolgere Cavalcanti, giovane riservato, immerso nel suo otium letterario e nei suoi studi filosofici. Considerato il miglior filosofo, eccellente esperto di scienze naturali, uomo fine, elegante e cortese nei modi, incarna tutte le virtù ambite e apprezzate dalla suddetta brigata che dalla sua presenza avrebbe ricavato un lustro e prestigio. Guido però rifiuta ogni approccio e non è interessato alla vita mondana. Un giorno Betto e alcuni suoi amici, vedendolo presso alcuni sepolcri di marmo vicino al battistero di Firenze, decidono di infastidirlo rinfacciandogli di disdegnare la loro compagnia e deridendolo per le sue ricerche filosofiche su Dio.
“ Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata: ma ecco, quando tu avrai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto? — A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: — Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”.
Guido, accerchiato, risponde che a casa loro avrebbero potuto dire ciò che avessero preferito e con un agile e leggiadro salto si allontanò lasciandoli stupiti. Solo Betto riesce a capire il motto arguto tutt’altro che gentile: il fatto di trovarsi tra le tombe, “a casa loro”, indica che sono come dei morti, perché privi di qualunque interesse o curiosità di natura culturale, scientifica, letteraria o filosofica. Presi dalla vergogna non osarono mai più dar noia a Guido.
Tantissime sono le chiavi di lettura e le tematiche di questa novella, innanzitutto la rivalità politica che non si palesa in uno scontro aperto ma si risolve in una sottile arguzia, “onestamente e in poche parole”, ma più di ogni altra cosa, la figura di Guido incarna la Firenze antica e il valore della cortesia, la ricchezza umana che si manifesta in fine educazione, intelligenza e sagacia. Oltre alle doti intellettuali che si possono compendiare nel concetto di humanitas, si associano anche qualità fisiche, evidenti nel salto agile e veloce con cui Guido si allontana da Betto e dai gaudenti compagnoni. Interessante è poi l’aspetto filosofico, spesso a Guido è associata la fama di ateo ed epicureo, retaggio forse dell’episodio di Cavalcante, padre di Guido, presentato nel X canto dell’Inferno tra gli eretici che “l’anima col corpo morta fanno”. In realtà si tratta solo di una diceria popolare, perché Guido in realtà aderì a correnti averroiste secondo cui l’anima individuale fa parte dell’intelletto universale. In realtà secondo alcuni critici, Boccaccio ha voluto omaggiare Dante alludendo all’episodio del X canto in quanto la scena si svolge tra alcune tombe marmoree, però si assiste a un rovesciamento in quanto Guido si libera velocemente dalle tombe che alludono all’assenza di una vitalità interiore, come i personaggi che lui vilipende e da cui si allontana per seguire la luce dell’intelletto. Non a caso, Calvino nelle sue “Lezioni americane”, assume il Cavalcanti della novella di Boccaccio come emblema della “Leggerezza”, uno dei tanti valori espressi nei sopraccitati scritti. Egli, al di là della battuta sagace di Guido, si concentra proprio sul salto con cui si libera dei suoi rivali “Sì come colui che leggerissimo era”, perciò Calvino afferma: “l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite”. Oltre a Calvino si può citare un passo di Seneca tratto dalle “Lettere a Lucilio”, dimostrazione palese dell’eterna della superiorità dell’intelletto.