Ma chi è Rovorosa
Di Geraldine Meyer
In fondo lo sappiamo che, a rilegger ora, alcune fiabe della nostra infanzia, ravviseremmo in esse elementi ben poco rassicuranti. Ciò che leggevamo con lo sguardo di bambini e che, ancor più, ascoltavamo da voci altrui, ci apparirebbe con ben altre sfumature. Quasi a rammentarci che l’infanzia non è quel giardino d’innocenza. Che, forse, l’innocenza mai c’è stata. È un po’ ciò che si prova leggendo questo Rovorosa, il nuovo libro di Eric Chevillard, portato in libreria sempre da Prehistorica Editore e molto ben tradotto da Gianmaria Finardi.
Una favola nera, un sogno, un incubo, un fluire di parole per una storia che non è mai ciò che sembra. Un esperimento linguistico con cui Chevillard fingendo di voler far breccia nel piano sentimentale del lettore lo porta, in realtà, a mettere in campo il piano cerebrale per venirne preso, sballottato e condotto alla fine con non poche domande. La prima: chi è Rovorosa? È davvero una bambina alle prese con il suo taccuino a cui affida la sua scoperta del mondo, delle cose, dei colori e del vuoto e della paura che spesso accompagnano la vita dei bambini? Il suo sguardo, che sfocia in parole di cui lei sembra voler assaporare gusto e suono è davvero quello di una bambina? Io, il nodo non l’ho sciolto. E, forse, va bene così.
Tra vicini con una gamba sola, streghe, cinciallegre, castelli, luoghi indefiniti, vagabondare per una città o forse semplicemente dentro una stanza, Rovorosa parte alla ricerca di suo padre, Mangiaferro, probabilmente un malvivente che agli occhi della figlia sarà però un uomo portatore di magia. Rovorosa non sa, non capisce oppure capisce con gli strumenti di cui dispone. Che sono la fantasia, ragionamenti strampalati e corse a perdifiato nei territori di quell’incomprensibile che cerchiamo di addomesticare perché ci faccia un po’ meno paura.
Quando Mangiaferro sparisce, per sempre o forse no, per caso o forse per scelta, Rovorosa ci porta con sé alla ricerca di qualcosa che, lo intuiamo, non è solo la ricerca del padre. È una ricerca nell’ordine disordinato delle cose, nelle allucinazioni e distorsioni del vero (ma quale vero poi?) con cui lei, bambina ma forse adulta, si trova immersa. Come proseguire? Con la parola e il racconto. Una fiaba per sé e per gli altri. Per questo Rovorosa non chiude a chiave il suo taccuino. Perché se il suo racconto restasse un segreto, tutto potrebbe sparire. E lei non vuole che sparisca il suo racconto, come è sparito suo padre.
Rovorosa è, prima di tutto, una elegia della parola, della sua potenza, della sua forza salvifica anche quando ci porta a perderci. E a far perdere anche gli altri. Sì perché chi legge questo libro ha, spesso, una sensazione di disorientamento, un po’ come accade quando si sogna, sapendo che ciò a cui si sta assistendo è vero e non vero allo stesso tempo.
Un libro non facile, una sfida al lettore a cui viene chiesto (o suggerito, o proposto) di immedesimarsi con Rovorosa, mantenendo però le distanze. Un ossimoro. Proprio come, se ci si pensa bene, l’infanzia. Proprio come l’ultima pagina del libro. Che dice e non dice. E che, proprio per questo, ci appare come una premessa posta, per gioco alla fine: “C’era una volta Rovorosa.”
Letteratura
Prehistorica Editore
2021
165 p., brossura