Su “SERIAL FILLER. Cronaca di un pandemonio”, di Daniela Maurizi, ed. Scatole Parlanti, Viterbo, 2020.
Recensione di Carmelo Albanese
E pertanto, alla vetusta età in cui il ricatto della vita non trova leva, e men che mai ogni minaccia di ritorsione, posso finalmente agire con piena licenza. Tuttavia, non potendo denunciare ufficialmente le informazioni in mio possesso senza essere tacciato di pazzia o cospirazionismo – tentativo da me già operato – mi vedo costretto a pubblicarle in forma di romanzo distopico, vista l’assoluta libertà di cui gode ancora la fantascienza nel poter narrare l’inenarrabile
Con le parole di Elia si chiude il libro, ma in un certo senso è anche il momento in cui si apre. Elia (e quindi l’autrice) dà un’indicazione al lettore di Serial filler: esprimere il proprio pensiero sui fatti pandemici attraverso il genere del romanzo di fantasia. In fondo è anche ciò che fece Mary Wollestonecraft Shelley scrivendo Frankenstein. Potevi dubitare apertamente della scienza in pieno positivismo? Mica vorrai dubitarne ora?
Scrivere un romanzo è forse il modo più utile, per infrangere il divieto alla critica che si è instaurato da subito nella comunicazione sociale pandemica. Il dubbio e la libertà di pensiero, sono stati da subito messi fuori gioco. Preparando così la strada al virus per farlo correre oltre ogni ragionevole limite nella nostra vita sociale e democratica, senza bisogno che dovesse sforzarsi più di tanto per rendersi credibile. Termini come “negazionista”, “complottista”, “terrapiattista”, sono andati subito a costruire il recinto ideale, entro il quale far scorrazzare la paura, senza possibilità di riscatto per le aspirazioni libertarie e vitali del genere umano sottoposto a quarantena preventiva. Screditando e tabuizzando preliminarmente, qualsiasi ambizione a volerci capire qualcosa. Colui che crea una determinata realtà, è capitato anche a Dio, impone da subito alle sue creature il divieto di percorrere l’unica strada che potrebbe renderli liberi. E allora il romanzo è il luogo ideale per riprendersi le libertà violate: di dubitare, di essere ragionevoli, di lasciarsi contaminare dal buon senso.
Passiamo al libro. E’ un libro denso, dove si rincorrono vite ferme. Un viaggio improbabile, ma tragicamente reale, dentro la parte di materia vivente lasciata a nostra disposizione da uno dei poteri più odiosi che l’umanità occidentale abbia mai conosciuto dopo il nazismo. Un potere mai così globalmente compatto e organizzato nel concepire o cavalcare un evento avverso, per trasformarlo in un vero e proprio precipizio del senso.
Una cronaca disperata di sopravvivenza, quella dei protagonisti, che si dipana dal globale al locale, dall’individuo alla comunità, dall’uno al due, dal microorganismo alle file per il lievito madre della moltitudine, da Berenice a Mikael, dall’essere umano alle altre specie, dal filler e gli enzimi alla rete internet e alla cosmogonia dello scarico del cesso. L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo che si rincorrono, la diversità di ciò che vive, troppo a lungo separata nell’antropocene, che prova a ricongiungersi disperatamente con il pretesto della pandemia. Ma ci riesce? E’ il modo giusto? Forse no. Tutto bello, se a guidare quella super etica alleanza universale non fosse stata una cortese oligarchia finanziaria. Ma a quanto pare questo per molti era un dettaglio.
Nel romanzo si accennano temi giganteschi a partire dai microcosmi delle quarantene. Si cerca il senso nel non senso, si accennano teorie interpretative inesplorate, come il darwinismo digitale, che affiorano qua e là come momenti di lucidità nel coma universale globale. Il mondo è scomparso e riappare dentro i protagonisti epifanicamente, a tratti, quasi come le tentazioni del demonio a Cristo sul Getsemani: le cronache di un pandemonio, appunto. In quei brevi istanti di lucidità, emerge la vita di sempre. L’unica che conosciamo e l’unica che esiste davvero. Compare per mettere alla prova il nostro livello di rassegnazione. Come a voler testare la nostra fedeltà alla regola del silenzio imposta dal potere per avvalorare la messa in scena. Tradotta nella disponibilità a rinunciare alla tentazione di vivere, cacciando via quei frammenti ostinati e indomabili dell’essere umano che anelano alla libertà.
E’ un libro tragico come tragico e inutile è questo enorme esperimento che ha finalmente dato una misura all’umanità di come debbano sentirsi le cavie di un laboratorio. Un libro che finalmente e paradossalmente, attraverso l’espediente distopico, riesce a ricongiungerci al principio di realtà. Che ha il coraggio di parlare di ciò che non si può nominare: il complotto. Intorno al quale nessuno può argomentare, pur ritenendolo l’unica spiegazione plausibile per ciò che ci è capitato di vivere. Un complotto per la verità piuttosto scontato, semplice, per certi versi banale. Come prendere la mela dall’albero di mele. Farlo però romperebbe l’incantesimo e tenere in piedi la favola è la regola. Sarebbe forse troppo doloroso per tutti, come prospetta il dottor Willy, dire le cose per quello che sono. La fine della terribile filastrocca, e nel romanzo ce ne sono diverse molto liberatorie, rivelerebbe una realtà ancora più terribile, dove i morti falsamente esasperati dall’informazione pandemica, diventerebbero morti reali. La domanda risolutiva, in questo senso, se la pone la protagonista: meglio soli che malati o meglio malati che soli? Meglio malati si risponde senza esitare. Siamo d’accordo.
Voci
Romanzo
Scatole Parlanti
2021
138 p.,