Fuga in campagna, di Maurizio Garuti
Di Geraldine Meyer
Si era già cimentato, in un certo senso, con il mistero Maurizio Garuti con il bellissimo Il segreto della cavallina storna, un testo con cui ha riscritto l’omicidio impunito del padre di Giovanni Pascoli. Con questo Fuga in campagna Garuti approda apertamente al giallo. Con esiti, a mio modestissimo parere (e mi perdonerà l’autore per la franchezza) intermittenti. La struttura del giallo non è la parte più forte del libro. Pur costituendone l’impalcatura trova nel vero mito fondante della narrativa di Garuti, la campagna, il suo vero fulcro.
Sì perché anche in questo Fuga in campagna Garuti si fa cantore di qualcosa che non c’è più, che sarebbe bello poter dire, come a scampolo di speranza, che va sparendo. Ma anche in questo pagine irrompe come un antico che soccombe, come un’utopia o come l’illusione di qualcosa ormai sbiadito. Teatro di quello che il protagonista e la sua famiglia vorrebbero come cambiamento, riscatto. Immersione nell’acqua limpida di una vita di cieli tersi, stagioni, spazi e respiri lenti. Ma che si rivelerà come quella allucinazione che, spesso, coglie gli abitanti della città, vestiti di proiezioni, portati a credere che in campagna la modernità ancora non sia riuscita a far breccia in un eden, in un far west che, in realtà, esiste solo nella testa di chi non lo conosce.
E qui, forse proprio a dar maggiore forza narrativa all’idea e all’immagine, Garuti si affida a una storia che diventa un’indagine, tra piccolezze, ignoranza, traffico di minori. La quiete sognata dal protagonista si infrange contro una realtà ben diversa, che il silenzio della campagna ha solo amplificato. Un matrimonio in crisi o, almeno, in piena bonaccia, una figlia che si affaccia all’adolescenza con una violenza distruttrice che travolge, ovviamente, il suo rapporto con i genitori. E tutto si sgretola. Ed è così che la crisi della famiglia cittadina e borghese, che sembra quasi una metafora, si trova a percorrere una strada parallela a quella dell’idillio campagnolo. Che idillio non è. Perché in queste pagine la campagna è solo una propaggine del resto del mondo. Permeabile, come tutti i luoghi, alla violenza, al sopruso, agli affari sporchi e al crimine.
Cosa voleva dirci Maurizio Garuti con questo Fuga in campagna? Forse che l’abbaglio è non solo geografico ma anche semantico e che l’idealizzazione che diventa fuga non può che portare al disastro. Più che i vari personaggi, a volte archetipi e a volte quasi caricaturali, qui a scontrarsi sono proprio la realtà e la visione distorta e illusoria che di essa accade di averne. Non esiste la campagna come luogo al riparo, non esiste la città come detentrice di tutti i mali e non esiste la possibilità di cambiamento là dove c’è una fuga. Che, inevitabilmente, diventa un tornare sui propri passi.
Forse proprio per questo, sempre restando dentro una sorta di metafora, a risolvere il giallo sarà proprio la figlia adolescente, disorientata e per questo in rotta con i genitori, ancora ragazzina ma impegnata a giocare alla donna. Sarà lei forse perché era l’unica a non credere a un paradiso perduto, a quella campagna trasformata dagli adulti in un non luogo.
Narrativa
Minerva
2021
262 p., brossura