Uno di noi, di Larry Watson.
Di Geraldine Meyer
Nel libro Uno di noi, di Larry Watson (titolo originale Let him go) c’è davvero tutto quello che ci si può aspettare dalla letteratura americana. A partire dalla cornice on the road che qui diventa davvero parte integrante della storia. Un viaggio che viene intrapreso quasi a sottolineare come sarebbe stato meglio dare retta a ciò che il titolo originale del libro pare suggerire. La storia è di quelle che hanno il sapore dei ranch, della polvere, degli spazi infiniti e di quella cultura western da cui non si può prescindere se si vuole davvero comprendere qualcosa dell’America, senza pregiudizi. Quel difendere terre, ma anche persone, a tutti i costi perché ogni cosa è proprietà privata, si sono mosse carovane per conquistarle (letteralmente e metaforicamente) per cui tutto è lecito per prendersi o riprendersi ciò che si ritiene proprio. In questo Uno di noi il “proprio” è la memoria di un figlio morto che Margaret pensa di potere e dovere riportare a casa andandosi a riprendere il nipotino Jimmy. Ma, come in tutte le storie western, qualcuno tiene l’oggetto del desiderio tra le pareti di un altro territorio, un’altra proprietà privata. Questa volta è quella dei Weboy. Donnie Weboy ha sposato infatti la vedova di James Blackledge, portandoseli entrambi dal North Dakota al Montana. A nulla serviranno i tentativi di George, ex sceriffo e marito di Margaret, di convincere la moglie a rinunciare al suo proposito, lasciando andare appunto, sia la memoria del figlio sia il nipote.
Ma cosa ci possa spingere a fare un dolore che non passa, cosa possa indurci a credere di sistemare, è materia della vita di ciascuno di noi. E qui, in questo Uno di noi, diventa la materia/ossessione di Margaret che, incapace di accettare la perdita del figlio si convince di sapere cosa sia meglio per tutti, cioè riportarlo a casa. E su quel “riportarlo” si gioca tutta la partita. Perché presuppone la certezza rispetto a quale strada intraprendere. Per Margaret ce n’è una sola possibile. E su questa mappa stradale sentimentale si disegnerà il piano inclinato degli eventi, fino alla fine.
Un libro da cui, forse inevitabilmente, è stato tratto un film. E se diciamo inevitabilmente è perché è impossibile leggerlo senza vedere i personaggi, i loro gesti, le loro espressioni, anche il loro modo di muoversi. E in questa che potrebbe sembrare una sorta di prevedibilità c’è, in realtà, la forza del libro. Che è poi un po’ quella della letteratura americana in genere, con quel suo riuscire a raccontare l’universale attraverso il particolare dei dettagli reali, delle luci, dei paesaggi, delle strade e dei vestiti indossati dai protagonisti. Un cappello calato all’improvviso sulla fronte, una camicia a quadri, uno stivale con lo sperone, un uomo e una donna che viaggiano su una macchina su cui hanno caricato tutto, ma proprio tutto sono personaggi di pari importanza, sullo stesso livello. Ed è così anche in questo Uno di noi in cui anche il linguaggio (che ci sembra di avere sentito in decine e decine di film) invece di banalizzarsi diventa qualcosa di non separabile dalla storia. Come se questa storia non potesse che essere raccontata in quel modo, con quelle parole. Ci si va a riprendere un nipote come si andava a riprendere un carico di legname rubato da una banda di cattivi. E i rischi di entrare nella terra di questi cattivi sono gli stessi. Perché questa è l’America. E questo libro ce la racconta molto bene nella sua ossessione di sistemare le cose, sempre, a qualunque costo.
Frontiere
Letteratura americana
Mattioli 1885
2021
260 p., brossura