Viterbesi degni e indegni
Di Geraldine Meyer
Torna la rubrica Alla ricerca del libro perduto e lo fa “ripescando” questo delizioso Gatti e Tignosi, dizionarietto dei viterbesi degni, indegni, comunque memorabili, di Massimo Onofri, viterbese doc e etrusco estinto. Non poteva esserci, per tanti motivi, voce e penna migliore per quello che, a tutti gli effetti, appare come una sorta di breviario letterario di una città, Viterbo, e della sua provincia. Tanti ritratti brevi ed essenziali in cui, brevità ed essenzialità, sono non una decurtazione della ricchezza testimoniale ma, al contrario, concentrato di notizi, dettagli, ombre e luci.
Dizionarietto perché gli uomini e le donne di cui si narra sono riportati in ordine alfabetico, ma dizionarietto anche perché questo Gatti e Tignosi ci conduce in una mappa, non solo storica e biografica ma finanche psicologico-culturale tra vizi, virtù, megalomania e sonnacchiosa indole cittadina.
Un libro che, certamente, ha valore particolare per chi, nato o naturalizzato, abbia in Viterbo e nella Tuscia la sua casa. Ma anche per chi abbia semplice curiosità di comprendere qualcosa di questa stupenda ma sottovalutata città troppo vicina e troppo lontana da Roma.
C’è di che godere e riflettere leggendo l’Onofri “biografo” della sua città. Fin da subito, quando, ricordando Piovene, stigmatizza l’immobilità di Viterbo scrivendo: “La Viterbo che apparve a Guido Piovene a metà degli anni Cinquanta non sembra poi così diversa da quella che, nel secolo precedente, si trovò a visitare un viaggiatore assai meno illustre, ma certamente più intraprendente e avventuroso […]” In quell’apparire non così diversa, a distanza di decenni, vi è quella silente e suadente immobilità del suo medievale peperino, dei suoi lastricati vicoli che paiono fermi nel tempo.
Ma non lesina certo critiche Massimo Onofri, in brevi pensieri o sferzanti aggettivi, abbaglianti e taglienti come la tramontana che qui soffia sovente. Come quando definisce Viterbo accigliata e accidiosa, usando anche in questo caso una brevità ed una essenzialità che tutto dicono. O quando ne ricorda la troppo radicata bassa qualità della classe amministrativa.
Ritratti dunque che in una dotta cavalcata letteraria tra i suoi amati Piovene, Brancati e Alvaro, solo per citarne alcuni, mescola vite reali a letteratura, in una invenzione che, come ci ricorda lo stesso Onofri, ha la duplice accezione del latino invenire, cioè trovati e ritrovati. Alcuni conosciuto, come Bonaventura Tecchi, altri presi dai pertugi nascosti della storia come il meno noto Giuseppe Celestini, fornaio a piazza Fontana Grande. O ancora l’estroso e bizzoso “etruscologo” Mario Signorelli e il pittore e saggista, storico dell’arte Gavino Polo. E tanti, tanti altri che, ciascuno a suo modo, disegnano e sono disegnati da questa città, Viterbo, divenendone causa ed effetto, in un perpetuarsi di piccole grandezze e grandi piccolezze.
Gatti e Tignosi è un piccolo (solo di formato) libro che sarebbe bello la viterbese Sette Città ristampasse. Perché è un libro senza tempo e che, proprio per tale motivo, conserva quella lucida attualità di visione e studio che sfociano in quello spartito, a volte sincopato a volte quasi a canone, di cui è fatta Viterbo. Un libro che ha la sua ragion d’essere negli stessi fini per cui nacque e che Onofri scrive chiaramente: “Il fine è stato quello di confondere insieme, in una specie di contraddanza degli ingegni, guelfi e ghibellini […] Per ognuno di loro abbiamo voluto accendere un lumino funebre, prima che la ruspa della Storia non abbia devastato o cancellato del tutto il volto delle città e dei paesi della Tuscia in cui, per chissà quale ventura, si sono trovati a vivere.”
Letteratura
Sette Città
1994
107 p., brossura