Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

La vita nell’abbandono

Di Geraldine Meyer

Un romanzo? Un diario? Un reportage? In quale casella mettere questo Una passeggiata nella zona non è cosa semplice ma, in fondo, nemmeno necessaria. Forse perché il libro di Markijan Kamys è un po’ tutte queste cose insieme. Un allucinato e poetico viaggio in quella Cernobyl in cui si sono infranti i sogni di potenza di un impero che, da quel momento, ha preso il piano inclinato della dissoluzione. Una dissoluzione quasi somigliante a quella del reattore che, per la simulazione di un guasto, si è trasformato in vera tragedia.

Kamys è uno di quei vagabondi, nostalgici e folli, che illegalmente non può fare a meno di tornare e ritornare nella Zona, passeggiatore drogato e affascinato da quelle rovine, dai palazzoni abbandonati, da villaggi spettrali, vegetazione prepotente. Una alienazione, come la definisce spesso lui per primo, che attira e spaventa ma che qui sembra rappresentare una sorta di contrappasso equilibrista all’ipocrisia umana. Anche a quella dei tour legali che pensano di vendere l’esotico radioattivo come un frammento di archeologia politica e industriale.

Kamys no, lui non vende nulla. Cammina in bilico tra pericoli per la salute e quel non poterne fare a meno che appartiene solo ai folli, ai poeti o a chi, semplicemente, cerca la vita nella morte, la morte nella vita, un fantasma tra rovine arrugginite e fossilizzate, piene di polvere e dell’indescrivibile odore dell’assenza degli uomini. Freddo, neve, boschi, stanze abbandonate trasformate in lugubri quanto accoglienti giacigli, vetri rotti, chiese, scuole distrutte, palazzi spettrali, tutto per lui diventa parte di una cartografia personale, di una geografia inevitabile e da scriversi sempre, di nuovo e ancora.

È questo non riuscire a non tornare che accompagna il lettore per tutto il libro, tra momenti di cupezza alternati a momenti che sconfinano nella bellezza. Paradossale bellezza. Con una ricchezza di registri linguistici che ben si adattano alla complessità delle emozioni in gioco. Tra paura, incoscienza, consapevolezza lucida e terribile, Kamys pare quasi divenire un novello Virgilio che non guida alla salvezza ma alla amara riva della comprensione di cosa significhi essere figli del proprio tempo e di come, di conseguenza, non si possa andare altrove.

Cernobyl dunque quasi come una metafora esperienziale, un contrappasso, un passaggio stretto attraverso cui tocca passare per capire che non esiste redenzione. La centrale, la zona, i villaggi attorno sono qui la punteggiatura di un fallimento che è però la grammatica della vita stessa. Scrive infatti Kamys: “Quando mi chiedono della salute non so bene cosa dire. Sì, fa molto male. Non è una buona idea bere l’acqua di laghi contaminati, condotti di scarico, paludi e pozzanghere piene di ferro e metalli vari. Ma è così, a volte abbiamo a che fare con la vita, altre volte con la morte.”

Una sfida dunque? Ma a cosa? Alla vita o alla morte, appunto. La parola alienazione, che tante volte torna tra queste pagine, pare qui suggerire non qualcosa di patologico ma, semmai, qualcosa che assomiglia all’impossibile addomesticamento dell’Altro, dell’alieno che non è il deserto di vita di Cernobyl ma, forse, chissà, ciò che quel deserto suscita, ciò che quel deserto sembra, rocambolescamente, non far morire. Come scrive infatti l’autore: “[…]muschio e fogliame. Strati che sono più spessi della crosta terrestre. Penetrano nelle profondità della terra e come un magma di ricordi risvegliano luoghi abbandonati, non li lasciano congelare, non permettono che si trasformino in palazzi di ghiaccio deserti.”

In fondo Kamys fa proprio come il muschio, non permette che la zona muoia. Ecco perché questo Una passeggiata nella zona è anche un libro sul valore e l’importanza della testimonianza. Ma anche sull’importanza che l’abbandono resti abbandono. Che qualcuno, certo, se ne prenda cura raccontandolo ma senza trasformarlo in un souvenir da collezione.

UNa passeggiata nella zona Book Cover UNa passeggiata nella zona
Markijan Kamys. Trad di A. Achilli
Reportage
Keller Editore
2019
157 p., brossura