Poesie di Vera D’Atri
Di Vera D’Atri
Il silenzio ha già detto tutto.
Nessun vino,
nessun pane, nessuna ghirlanda.
Nessun verbo da coniugare.
Le civiltà, vergini stolte,
hanno smesso di far voci. Le città
sono scomparse, arse dall’elettricità,
inghiottite dalla balena del cemento.
La geografia ha perso la sua storia.
Tarda la nuova specie.
L’aria la luce e le stelle sono gli unici
uccelli in grado di volare.
Ma, di tanto in tanto, sulle disperse
tracce del martirio la pioggia cade come
a resuscitare salmastri versi di generazioni.
Forse ancora cara le è la vita. Forse muto
pianto è il suo.
Ditelo al mare
e al suo brillare inquieto.
Dite che siete vele antiche,
che costeggiate la luna, che sorti
in movimento ora cercate pace, stasi
d’altura e perfino la costanza dei folli
nel male che sopraggiunge e offusca.
Quante nature ha il vento.
Quanti rimpianti.
Ora, dite l’avvicinarsi delle secche,
lo scoglio tetro, la morfologia compiuta,
dite, se si può, l’abitare stupito
tra gli umani.
Bruciano gli orologi
e il tempo è sempre uguale e sempre
e sempre la tua figura arde.
Questi sbadati interni bruciano ogni giorno.
E in sacrifici vani
e per ragioni sequenziali
ali bruciano e Icaro non vola.
In mari chiari caddi
come pensando di tramutar natura,
così io sempre ti raggiungo
dove più alto bruci
e tu non vedi me né le mie piume splendide
ma la caduta ardente che mi umilia.
Così Niobe nella pietra di se stessa
e nel mio frastuono io a snaturare il volto delle cose,
l’intenso credo a macerarsi lento
e non il dire fare delle persone esperte ma recensisco io
l’ormai che c’è e che non cambia,
il prima o poi che non inventa, stanca.
Mi grandinava primavera il sangue.
Tra le mani fili e figli di lucido filato,
meglio io i chiunque altro a fare in fretta e a difettarli
in un ritaglio di splendore.
Le mani che non giunsi e anche quei torti da mentire,
dunque la mia volontà,
ché non i corpi io esaltavo ma i loro puntigliosi regni,
allora non l’eccesso ma questo, la possibilità ch’ebbi
di pareggiar la sorte con gli dei, fu questo, io credo,
a generar condanna.