Il Bene maggiore viene dal Male: capitolo XXIII dei Promessi Sposi
Di Simone Chiani
Quando Bene e Male sono analizzati da un punto di vista prevalentemente religioso, come accade, perlomeno in superficie, nel Manzoni dei Promessi Sposi, ogni traguardo assume una connotazione universale, quasi eterna. L’esplosione del Cristianesimo nel cuore dell’Innominato ci porta a una dritta che, se contestualizzata anche in contesti moderni, pare esser tanto evidente: il Bene maggiore viene dal Male.
Renzo e Lucia sono ormai divisi da giorni. Una, fuggita verso Monza, l’altro, verso Milano, incontrano problemi e imprevisti senza la possibilità di condividerli. Dopo una gerarchia di conoscenze giunta fino all’apice dell’Innominato (figura malevola di cui Manzoni non vuole rivelare il nome nonostante ci si trovi in un romanzo storico), Lucia è ora rinchiusa nella fortezza di quest’ultimo, in attesa della sua decisione. Provvidenza vuole che, proprio in quell’ultimo periodo, lo spietato criminale abbia cominciato a fronteggiare i fantasmi del proprio terribile passato, e, a momenti, a pentirsi. In seguito a una notte trascorsa a struggersi per capire quale avrebbe dovuta essere la risoluzione migliore da prendere nei confronti della reclusa, l’Innominato scopre che in paese è arrivato Federico Borromeo, arcivescovo di Milano, attraverso la vista di un bagno di folla in sua frenetica attesa.
È qui che prende il via il capitolo XXIII, quello della conversione. Il più potente di tutti i malvagi, i quali dal canto loro hanno sì avuto possibilità di redimersi dai propri peccati senza mai tuttavia coglierla, decide di liberare Lucia. E lo fa anche grazie a un emozionante colloquio avvenuto con una delle principali figure religiose del suo tempo.
Quando Borromeo scopre che a cercarlo sia proprio il peggiore di tutti, nonostante i temporeggiamenti del cappellano crocifero (preoccupato, giustamente, da una simil visita) sembra esultare e dopo il primo stupore richiede che la visita sia immediatamente accolta. Fin da questo comportamento è evidente quanto l’aspettativa di una redenzione sia quasi aspettata con maggior vigore della gran folla cattolica in attesa fuori al palazzo; la vicinanza di colui che simboleggia il Male pare un guadagno incredibilmente maggiore di tanti buoni già affermati tali. Qualsiasi siano le loro individualità.
Dopo aver rivelato, certo con qualche fatica, al Cardinale le proprie frustrazioni e i propri rimorsi, vi è la prima, evidente evidenza di quanto si diceva in principio. L’Innominato (si) chiede, avendo toccato il fondo, cosa Dio avrebbe potuto farsene di uno come lui; è qui che Borromeo esplode nella Rivelazione:
“Cosa può far Dio di voi? Cosa vuole farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci, detestino le vostre opere… […] che gloria ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d’interesse; voci forse anche di giustizia, ma d’una giustizia così facile, così naturale! Alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino a oggi, deplorabile sicurezza d’animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! Allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io pover’uomo, che sappia dirvi fin d’ora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? Cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover’uomo, chi vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi del male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? E farvi salvo? E compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! Se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! Quanta, quale debba essere la carità di Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m’ispira un amore per voi che mi divora!”
Anche Dio, secondo Borromeo, proverebbe da questa redenzione un Bene attraverso il Male non raggiungibile in altro modo. L’azione divina diviene addirittura più evidente in tal caso che nel Bene d’ogni giorno.
All’apice dell’ispiratissimo discorso si arriva peraltro a parlare d’amore. Un amore che non viene evidenziato (forse perché scontato, o forse perché è proprio ciò che si cerca di far evincere attraverso la massima presa in esame, ponendo in risalto l’agire inconscio degli animi umani) con tutti gli altri credenti, ma che sgorga quando ad avvicinarsi a Dio è qualcuno che ne è sempre stato distante. Un amore che in qualche modo è definito “imperfetto”, seppur riferito alla carità, la qual tuttavia in un discorso del genere ne è quasi metafora.
E ancora in seguito, riferendosi proprio alle “pecorelle” che sono i credenti in attesa là fuori:
“Lasciamo le novantanove pecorelle, sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita. Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne’ loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l’oggetto non ancor conosciuto.”
È evidente come ci sia comunque una ricerca di una connessione con le povere anime per ora accantonate, e come dunque non avvenga un totale rifiuto del “Bene perpetuo”; non è tuttavia questo il punto centrale o ciò che voleva esser posto in discussione. Il punto centrale è l’attenzione, l’enfasi riservata dal Manzoni e dunque dall’arcivescovo alla conversione, un avvenimento tanto sorprendente quanto per assurdo attrattivo, in senso iperbolicamente e cattolicamente erotico. Favoloso per quanto rappresentativo, in merito a ciò, anche il discorso di chi, d’animo codardo e banale, come Don Abbondio, dopo la situazione appena descritta, non si spieghi come il Cardinale abbia potuto riservar tanta dedizione a chi sempre ha fatto del male.
Federico Borromeo è, ciò forse sorprende, umanamente attratto e colpito, e riserva attenzioni, molto più a un Bene appena nato dal Male, che al Bene là fuori e d’ogni giorno. Come se in questo senso il Bene fosse un’apparizione del Signore più che nell’altro. Come se il destino del Male fosse quello, almeno in ultima battuta, di arrendersi tramutandosi in Bene, superando magari anche il Bene già noto.
Manzoni fu un genio a disegnare uno scenario simile. La sorpresa è che leggendo il romanzo si finisce per credere fermamente proprio alla discutibilissima massima che ha dato il via a questa nostra inconcludente (e inconcludibile) riflessione.
In copertina l’edizione de I Promessi Sposi del 1840