Il futuro della poesia, l’impegno nel mondo della cultura, l’amore per García Lorca: intervista a Lorenzo Spurio, giovane intellettuale del nostro tempo.
Di Laura Vargiu
Nato nel 1985 a Jesi, dove risiede, Lorenzo Spurio è un autore che, nonostante la giovane età, può vantare un curriculum di tutto rispetto che spazia dalla poesia alla critica letteraria, e non solo. Numerose le pubblicazioni all’attivo (l’ultima delle quali si intitola Il restauro delle linee, raccolta uscita lo scorso settembre con la casa editrice romana Edizioni Ensemble e la prefazione della poetessa Michela Zanarella), così come tanti, e importanti, i riconoscimenti assegnati finora alle sue opere.
Nell’ambito dei concorsi letterari, però, Spurio è attivo anche in qualità di ideatore e presidente, come nel caso del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” che giunge ora alla sua decima edizione, nonché presidente di giuria in vari premi. Inoltre, è direttore della rivista on line di poesia e critica letteraria “Euterpe” e presidente dell’Associazione Culturale omonima con sede a Jesi. In veste di critico letterario si è occupato, in particolare, dell’opera di Ian McEwan e cospicua è la sua produzione di saggistica in generale. Laureato in lingue e letterature straniere, ha tradotto dallo spagnolo opere di diversi autori di ieri e contemporanei; sconfinato è il suo amore per Federico García Lorca, della cui figura e opera è profondo conoscitore e appassionato studioso. Sulla sua vasta produzione hanno scritto anche nomi importanti del panorama culturale italiano.
Abbiamo rivolto al poeta marchigiano una serie di domande, occasione preziosa per parlare di scrittura in versi e molto altro ancora.
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Lorenzo, la sua attività letteraria è particolarmente intensa e spazia dalla poesia alla critica, senza tralasciare la narrativa, contando un importante numero di pubblicazioni, incluse quelle relative alle curatele. Come e quando è iniziata questa sua passione per la scrittura? E quando ha capito che essa sarebbe stata la sua strada?
Cara Laura, anzitutto grazie per il suo interesse nell’intervistarmi. Devo dire che la mia passione per la letteratura è nata poco più di una decina di anni fa, nel periodo universitario trascorso a Urbino. Avevo deciso di dedicarmi a tutt’altro genere di studi rispetto a quelli della scuola superiore (istituto tecnico a indirizzo scientifico-biologico) per studiare le letterature straniere. Ricordo i testi dei modernisti inglesi proposti da un docente di allora, le poesie di Yeats, il teatro di Beckett e la narrativa di Virginia Woolf. La signora Dalloway fu una scoperta sensazionale, un po’ come Cuore di tenebra di Conrad. Insomma, credo che iniziò tutto da lì, da queste felici influenze di opere e autori che via via andavo scoprendo. Difatti iniziai a scrivere qualche racconto e, al contempo, delle possibili letture e commenti alle opere che si approfondivano.
Lei ha partecipato finora a numerosi concorsi letterari. Ritiene che oggi per un autore, specie se esordiente, questi concorsi possano ancora rappresentare una buona “palestra” e possano avere la loro importanza nella sua formazione artistica? Come giudica, in generale, l’attuale panorama dei premi letterari nazionali?
Dovrei dire che “giudico” in maniera positiva il mondo dei concorsi letterari per il fatto che, da anni, ne organizzo direttamente alcuni con l’Associazione Culturale che presiedo e che alcuni li ho fondati, altri ho contribuito a farli nascere, a proporli, etc. Tuttavia, nell’osservare questo, sarei scontato e non sarei onesto con me stesso perché il mondo dei concorsi letterari – purtroppo e sempre più negli ultimi tempi – è diventato una mera giungla dove non solo è possibile perdersi ma assistere a famelici scontri tra partecipanti. In passato – e parlo di almeno trenta anni fa – i concorsi letterari potevano avere effettivamente un senso: ce ne erano pochi, erano condotti da persone competenti e riconosciute per la loro capacità e professionalità nel campo, ed erano supportati non tanto da sponsor di turno ma da una compagine di ricettori attenti, tra cui spesso le università, e potevano, per i vincitori dell’agone, avere un seguito positivo nel non facile – anche allora – procedimento di affermazione dell’Autore. Oggi assistiamo a concorsi di ogni tipo, che ampliano la partecipazione a potenzialmente la totalità degli autori; ogni città – anche le più piccole – ha almeno due o tre concorsi che vengono banditi, spesso molti si fermano alla prima edizione e non vi è un reale seguito della manifestazione perché non nasce da un progetto codificato e sentito come importante. Sui concorsi si può dire di tutto, tutto e il contrario di tutto, con buona probabilità di non sbagliare mai. Il fatto è che la messe dei premi cresce a dismisura, spesso manca un’idea di fondo che li origina, un motivo trainante e non di rado queste competizioni non fanno che palesare le idiosincrasie, le incapacità di chi organizza, l’assurdo che in sé stesso si alimenta. Si dovrebbe pure considerare tutto il fenomeno, per nulla marginale, delle occasioni di vera e propria collusione tra macchina organizzativa e partecipante, circostanze di mancata trasparenza, favoritismo e, cosa assai triste, di non lettura delle opere che giungono in competizione, subordinate a decisioni arbitrarie e studiate da regie che vorrebbero essere scaltre ma che, oltre ad offendere la poesia e la letteratura in quanto tali, rendono evidenza della loro miserevolezza. Ecco, non vorrei apparire inclemente perché la mia posizione – di fondatore e organizzatore di Premi – mi pone in questa non facile posizione ma sono dell’idea che chi decide di partecipare ai premi deve essere consapevole del reale funzionamento e dell’onestà del premio al quale intende aderire. I premi possono ancora avere una loro importanza, ben al di là dell’accrescimento egoico dell’uomo, ma è doveroso sceglierli con attenzione, valutare molte cose. Avendo assistito a vari episodi per nulla edenici e sporadici in questo campo che non ho gradito e nei quali non mi riconosco, negli ultimi tempi sono diventato abbastanza riluttante nei confronti di questo mondo. Se è vero che in passato ho partecipato a molti premi, come giustamente osserva, è anche vero che ultimamente ho perso questa attitudine, deluso e schifato dall’ipocrisia che si annida in tale mondo. Con questo non intendo generalizzare: ci sono nella Penisola senz’altro dei Premi di qualità, condotti non solo con grande animo e competenza, ma con un pregio riconosciuto in maniera allargata, per cui non sto demonizzando questo ambiente in extenso, ma doverosamente ne prendo le distanze.
Lei è ideatore, fondatore e presidente de “L’arte in versi”, premio di poesia molto noto e seguito che ora raggiunge il traguardo dei dieci anni di vita. Per chi ancora non lo conoscesse, illustri a grandi linee questa sua creazione, facendo anche riferimento al bando della nuova edizione.
Il Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” posso considerarlo come una delle mie creazioni che più mi ha dato soddisfazione nel tempo e alle quali sono maggiormente legato. L’iniziativa nacque per mia idea (il titolo venne, invece, proposto e dato dalla poetessa palermitana Monica Fantaci) con alcuni amici poeti che in quel periodo frequentavo abbastanza assiduamente nell’ambiente fiorentino. In quel periodo una serie di iniziative tra presentazioni di libri, reading e altro che avevamo organizzato e portato avanti, avanzai la possibilità di indire un concorso. Non avevamo alle spalle nessuna associazione, organizzazione, fondazione e, dunque – vale la pena esplicitarlo – nessun tipo di sostegno né economico né di natura pratica e gestionale. Pertanto la prima edizione venne lanciata con un bando abbastanza semplice e dava la possibilità di prenderne parte gratuitamente. Non potendo contare su nessun tipo di sostegno, il premio si concluse con la redazione di un verbale nel quale si segnalavano una serie di autori, sia per la poesia in italiano che per quella in dialetto, senza prevedere un vero podio. I testi di quegli autori vennero pubblicati in un’antologia edita da Photocity Edizioni di Pozzuoli. La forma abbozzata data a questa prima edizione era senz’altro atipica e poco definita, il tutto era focalizzato non tanto sull’effettiva volontà di selezionare quel che una Giuria riteneva come opere migliori ma di creare, ancora, momenti di incontro, condivisione e lettura delle proprie opere. Ricordo, infatti, che l’antologia con le opere venne presentata, alla presenza di alcuni degli autori inseriti, in due eventi che raccolsero, comunque, un rispettato e consistente pubblico, rispettivamente alla Biblioteca Villa Bandini di Firenze e a Palazzo Steri (Università) di Palermo nel 2013. Nel corso degli anni successivi il premio è andato via via crescendo, nelle varie edizioni si sono inserite varie altre sezioni (sino alle tredici sezioni attuali della decima edizione in corso, con scadenza al 31 dicembre 2021), ampliamenti e rivisitazioni della Giuria. Le prime cerimonie di premiazione si tennero alla Casa del Ghiberti a Firenze, sede dell’ARCI Provinciale, grazie all’aiuto della poetessa Sandra Carresi mentre dalla quinta edizione in poi il Premio divenne una delle attività principali dell’Associazione Culturale Euterpe (fondata a Jesi nel marzo del 2016) e da allora ha sempre avuto sede a Jesi con la cerimonia di premiazione presso la Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni sita in pieno centro storico. Parlare di questo Premio implica doverosamente fare il nome della cara amica e poetessa romana Michela Zanarella che ne è stata sempre parte attiva e collaboratrice, prima come giurata e poi come Presidente di Giuria, dal 2018 ad oggi.
Una delle prerogative di questo Premio è quella di conferire annualmente dei riconoscimenti fuori concorso a insigni esponenti della poesia nazionale che definiamo Premi alla Carriera e, per coloro che purtroppo se ne sono andati e vogliamo ricordare, Premi alla Memoria. Data l’alta caratura di questi rappresentanti vorrei ricordare, quali Premi alla Carriera conferiti: Dante Maffia, Anna Santoliquido, Donatella Bisutti, Matteo Bonsante, Marcia Theóphilo e “Alla Memoria” (solo alcuni): la calabrese Giusi Verbaro, i pugliesi Salvatore Toma e Biagia Marniti e la messinese Maria Costa. Nel 2015 ricordo con affetto il conferimento del Premio alla Carriera che attribuimmo alla poetessa e scrittrice calabrese Marisa Provenzano, donna verace di grande cultura che l’anno scorso ci ha lasciato. È estremamente difficile poter “presentare” dieci anni di attività del Premio, di incontri, eventi, testi raccolti in antologie, interventi critici, presenze istituzionali, collaborazioni con altre associazioni, dieci anni di attività però, per chi fosse interessato, consiglio di leggere la pagina WikiPoesia (uno degli enti che dal 2020 fornisce al Premio il suo patrocinio morale e il suo segno distintivo) relativa al Premio, cliccando qui.
A proposito di anniversari, anche la rivista on line di poesia e critica letteraria “Euterpe”, da lei fondata, ha compiuto dieci anni proprio quest’anno, festeggiando con la pubblicazione di una raccolta collettiva che racchiude l’archivio storico e la lista degli autori che di volta in volta hanno contribuito con i propri testi al successo di questo progetto. In breve, la storia della rivista e i programmi futuri.
Il decennale della rivista e quello del Premio cadono nel medesimo periodo perché, come già accennato, sono la trasposizione temporale di un fermento creativo e organizzativo che mi riguardò, assieme a una serie di poeti e scrittori, in quel periodo soprattutto nell’ambiente fiorentino. Furono, quelli, periodi di grandi incontri, scambi di libri e di idee, presentazioni, e videro la nascita di collaborazioni importanti, in alcuni casi anche di amicizie e senz’altro – per lo meno per quanto mi riguarda – furono centrali e determinanti nello sviluppo di me quale autore ma anche di organizzatore e promotore culturale. La rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe» s’iscrive senz’altro in questo clima e, pur essendo sempre stata digitale (e non avendo mai raggiunto la sua dimensione cartacea che, però, non mi sento di escludere per il futuro!), è sempre stata qualcosa di diverso – e direi oltre – a un semplice lit-blog o magazine. Si è trattato – e la levatura di certe collaborazioni negli anni ne ha data espressa manifestazione – di un esperimento letterario, una vera e propria fucina, attorno alla quale con interesse, volitività ed entusiasmo si sono via via raccolti autori – tra poeti, scrittori, saggisti, giornalisti, haijin etc. – che vi hanno transitato, che vi permangono assidui da anni, alcuni che vi sono ritornati dopo interi anni d’assenza. Ritengo la rivista uno spazio dinamico e fluido; a testimoniarlo sono la grande varietà dei profili degli autori che vi scrivono, i loro temperamenti, stili, le loro generazioni. Uno spazio che dà voce ai testi, alle opere che la Redazione (e lei lo sa bene, facendone parte) legge, rilegge, discute, seleziona. Il volume-archivio del decennale, Euterpe 2011-2021, credo sia un buon mezzo per ripercorre i dieci anni di fermento letterario, l’assidua attività di ricerca e approfondimento dei testi, ma anche la resa attuale dei contenuti riletti e approfonditi alla luce di nuove considerazioni, studi, indagini. Il volume si apre con un mio sostanzioso intervento critico che traccia il percorso della rivista e i suoi sviluppi nel tempo, oltre a riportare in ordine alfabetico l’elenco degli autori che vi hanno collaborato – vari anche gli stranieri – la conformazione della redazione, le tematiche via via investigate etc. Prima che il Covid si diffondesse e imperversasse si era iniziato a proporre, alla pubblicazione dei vari numeri, degli appuntamenti fisici in modalità conferenza e recital con la presenza degli autori dei testi, volti all’incontro fisico degli autori e alla presentazione delle opere. Alcuni incontri di questo tipo si sono tenuti a Senigallia (AN) presso Palazzetto Baviera, a Villa Arrivabene, zona Campo di Marte a Firenze e, grazie all’aiuto di Anna Manna Clementi, alla Biblioteca “Spinelli” della Facoltà di Economia a “La Sapienza” di Roma. Speriamo che in futuro sia possibile riprendere questa modalità di presentazione dei contenuti dei futuri numeri che andremo a pubblicare.
Nei mesi scorsi, sotto la sua presidenza, si è conclusa la prima edizione di un concorso di poesia dedicato all’importante figura di Danilo Dolci, intellettuale e attivista non violento che meriterebbe di essere meglio conosciuto dal grande pubblico. Com’è nato questo progetto? Il Premio “Gandhi d’Italia” diventerà un appuntamento annuale?
Confesso che fino a circa un anno fa neppure io conoscevo questo grande uomo e le tante cose che nel corso della sua vita, motivato da un’idea di concordia universale e di denuncia dei mali sociali, ha avuto modo di fare. Me ne parlò il poeta e amico Vincenzo Monfregola, dicendo di conoscere uno dei suoi figli. Da lì presi a leggere la sua biografia in rete, così ricca di eventi, e anche le sue poesie. Chiaramente non è stato il primo ad esporsi contro la mafia siciliana ma, come la cronaca ricorda, lo fu per averne parlato alla radio senza reticenze, quella «Radio Partinico» che fondò, in un periodo nel quale si muoveva – in maniera ben più rumorosa e fastidiosa – anche Peppino Impastato, non molto distante da lui e sempre, comunque, all’interno della provincia palermitana. C’è una foto in bianco in nero che li ritrae insieme a qualche evento a cui presero parte e la trovo assai significativa. La denuncia di Danilo Dolci, apparentemente più pacata di quella di Impastato, non fu meno inclemente e con la sua ampia opera (penso a Banditi a Partinico) mise nero su bianco in maniera molto coraggiosa la vita della provincia siciliana nella sua subalternità retrograda, tra pia religiosità, sacrificio del lavoro e strenua difesa dell’onore. Vicende di sangue che venivano rese sulla pagina perché partorite non tanto dalla versatile creatività dell’Autore, quanto dall’esperienza tangibile e concreta, dall’osservazione della realtà sociale. Dolci si interessò anche a molto altro tra cui la lotta non violenta a difesa degli emarginati e dei popoli in cerca di autodeterminazione e, non meno importante, al tema ambientale. Decidemmo di dedicargli un premio letterario, chiarendo subito che non ci interessava approfondire né sottolineare né in nessun modo aderire alla posizione ideologica di Dolci, ma di promuovere, al contrario, le sue legittime battaglie sociali, valide ancor oggi. Notammo in rete che in passato gli era stato dedicato già un qualche premio di poesia, che probabilmente non veniva più portato avanti, e decidemmo di intitolare il nostro con l’epiteto “Gandhi d’Italia” come spesso venne riconosciuto per il suo impegno nei confronti della nonviolenza. I patrocini morali del Comune di Palermo e della Città Metropolitana di Palermo (non quello di Trappeto dove a lungo visse ed operò) che sono stati attribuiti all’iniziativa sono a evidenza della validità del progetto e dell’esigenza di ricordare questo importante intellettuale del quale – come ha giustamente osservato – poco o addirittura nulla si dice. L’idea è quella di portare avanti questo Premio, che nella prima edizione – data la partecipazione gratuita e la concessione dei premi da parte delle Associazioni organizzatrici – ha avuto una grandissima partecipazione. Stiamo valutando quale forma poter dare a quella che sarà la seconda edizione che ci piacerebbe bandire nel corso del 2022 e sperare di poter vedere, quale luogo della premiazione, addirittura la Capitale. Essendo un progetto di grandi dimensioni, esso necessita di una programmazione attenta per una gestione corretta nel tempo e un impegno che è da considerare assieme agli altri referenti delle Associazioni Culturali co-organizzatrici. È ancora tutto da valutare, ma l’intenzione c’è di certo.
Nel 2020 è stata pubblicata per la prima volta in Italia una selezione di testi della poetessa ecuadoriana Dina Bellrham: Le iguane non mi turbano più (prefazione di Siomara España, Le Mezzelane). Lei ha curato la raccolta e tradotto dallo spagnolo le poesie di questa giovane autrice prematuramente scomparsa nel 2011 a meno di trent’anni. Perché la sua scelta di traduzione è ricaduta su questo nome? Quali sono le peculiarità della poesia della Bellrham?
Considero non fortuito l’incontro con questa poetessa, dal momento che sono dell’idea che nessuna cosa accade per caso. Tempo fa ero occupato con la scrittura di un saggio che, partendo da Antonia Pozzi e Alfonsina Storni, si predisponeva a dare qualche notizia in merito ad alcuni poeti, tanto italiani che stranieri, che nel corso della loro vita, per ragioni diverse, avevano deciso di uccidersi. Chiaramente tra i letterati e gli artisti gli esempi, le vicende biografiche di questo tipo non mancano, alcune veramente note a tutti, come le vicende di Virginia Woolf e di Ernst Hemingway. Documentandomi per questo studio (che ho in seguito completato e al quale ho dato il titolo di Come Canace, attualmente inedito) ho trovato in rete il blog di questa giovane poetessa del sud America. Sono rimasto colpito per la forza dei suoi versi, per l’icasticità e per l’effervescenza visionaria dettata da squarci onirici tesi ad indagare nel subconscio. Solo in un secondo momento, dopo aver letto varie liriche, sono andato a leggere la sua biografia ed ho scoperto che era morta giovanissima. Poetessa in erba di Naranjito, vicino la grande città di Guayaquil in Ecuador, nel suo ambiente aveva già pubblicato dei libri, partecipato a reading, vinto concorsi. La sua presenza sulla scena letteraria di quegli anni non è stata dunque né periferica né saltuaria. Dina Bellrham viveva di poesia e lo testimoniano i suoi testi, spesso così drammatici e dolorosi, altre volte dettati da un grande animo sociale e un incanto d’altri tempi verso la figura materna. Entrai in contatto con sua madre, la conobbi virtualmente, nel periodo in cui ero andato traducendo varie sue poesie. Nacque così l’idea di raccoglierle in un volume: si tratta di una mera scelta di testi da alcuni dei suoi libri dal momento che la sua produzione è stata molto ampia. Le iguane non mi turbano più, che è il titolo dato a questo volume, è la trasposizione in forma adattata del titolo dell’ultima poesia che Dina scrisse prima di lasciare questo mondo. La trovo significativa perché, come rivelato anche in un’intervista rilasciata a Cristina La Bella per «Urban Post» qualche mese fa, forse Dina in quel periodo aveva raggiunto un’autocoscienza profonda che le aveva consentito, pur nel dramma e nella dissociazione psichica che spesso la connotava, di raggiungere l’idea che, in fondo, quelle che aveva ritenuto sempre delle minacce dietro l’angolo – rappresentate simbolicamente dalle iguane – era stata capace di allontanarle, di negarne la potenza, di neutralizzarle. Il raggiungimento di una condizione solo in apparenza felice, tendente alla normalità, nella quale purtroppo il tragico gesto venne ad inserirsi. Trovo la sua poesia magmatica, completamente fuori dagli schemi, spesso mi fa pensare all’avanguardia: dal surrealismo al collage, a vere tecniche e manifestazioni che creano spiazzamento come furono i ready-make. C’è però tanta ricerca interiore, confessione, ascolto delle pieghe dolorose dell’animo, solitudine e sofferenza. La poetessa e critico letterario ecuadoriana Siomara España, che conobbe direttamente Dina e che ha curato varie prefazioni e saggi sulla sua opera letteraria, è stata così gentile e sensibile di collaborare al progetto scrivendo il prologo dell’opera (poi tradotto da me in italiano) che ha la forma di un lungo saggio interpretativo dell’opera ma anche conoscitivo della donna Dina, un percorso affascinante e senz’altro di grande utilità per avvicinarsi alla conoscenza (e l’inizio di un possibile approfondimento) di una poetessa erede di Alejandra Pizarnik che lei particolarmente amava, unite dal medesimo tragico destino.
Tra le sue pubblicazioni di questo 2021, ne troviamo una dal titolo particolarmente interessante: Inchiesta sulla poesia (Prefazione di Massimo Pasqualone, Place Book Publishing, Rieti). Può spiegare nel dettaglio il contenuto di questo lavoro e illustrare i risultati conclusivi di tale inchiesta?
Qualche giorno fa è uscita per una rivista online una puntuale e circostanziata recensione al volume scritta da Mario Saccomanno che rintraccia quelli che sono i contenuti principali della mia opera e, soprattutto, le modalità dell’indagine svolta. Il volume si chiude volutamente con una sezione indicata come “Conclusioni aperte” dal momento che, data la vastità degli argomenti, la loro particolarità e suscettibilità alle tante interpretazioni, tutte a loro modo apprezzabili e possibili, non è in nessun modo concepibile di giungere a reali conclusioni o, per lo meno, a rilevazioni definitive. Il libro è nato da un progetto lanciato sul finire del 2019 con l’intenzione di raccogliere, con un apposito modello di sondaggio attentamente predisposto, quante più informazioni possibili attorno a una serie di aspetti e circostanze che concernono la poesia (la sua diffusione, l’accoglimento, le commistioni con le varie altre arti, etc.). L’iniziativa, vale a dire questo “lancio” o intesa come una potenziale invettiva, aveva espressamente un destinatario privilegiato. La mia volontà, infatti, era quella di offrire i vari spunti, solleticando possibili argomentazioni, prevalentemente nei poeti stessi. L’intervista era pensata non tanto per i cosiddetti “addetti ai lavori” ma a tutti coloro che in qualche modo sono interessati al fenomeno creativo e ricevono l’ispirazione che poi dà frutti sulla carta nella forma di versi, ma anche a coloro che leggono e apprezzano il genere, lo studiano, lo approfondiscono, ne fanno oggetto di analisi critiche e saggi, a coloro che lo traducono e “versano” da una lingua all’altra (comprendendo anche le forme dialettali e i vernacoli). Sono abbastanza certo di non essere approdato a nessuna certezza indiscussa attorno alla poesia (né edificante né scoraggiante) né di aver detto, sommariamente, qualcosa di completamente inedito o di provvidenziale. Semmai, come è stato sottolineato anche da recensioni di Francesca Luzzio e Francesca Innocenzi, tra le altre, di aver tentato di fare il punto della questione su una serie di situazioni e comportamenti dell’uomo che lo vedono legato al mondo poetico. Aver dato voce a posizioni diverse, vagliandone le tesi, fornendo indicazioni numeriche in merito all’incidenza delle proposte date, argomentando in maniera mai settaria e di parte le varie impostazioni che ne sono fuoriuscite. Il volume si snoda in una serie di capitoli attorno ai quali si centralizzano le varie aree tematiche investigate: il significato della poesia e le sterminate definizioni che di essa si possono dare; i rapporti tra poesia e scienza; le relazioni che interessano i vari codici linguistici e dunque la poesia dialettale e la traduzione poetica; il rapporto con il pubblico; le forme di partecipazione attiva del “fare” poetico parlando di concorsi letterari e poetry slam e molto altro ancora. Ritengo che sia un’opera utile per riflettere su alcuni aspetti, assolutamente non definitiva e in nessun modo atta a fornire certezze o evidenze specifiche in relazione alle realtà oggetto dell’analisi. Al contrario può rappresentare una base per future confutazioni, riconsiderazioni, ampliamenti e sviluppi ulteriori. C’è un aspetto, ad esempio, che reputo importante quando si parla di poesia (che nell’inchiesta non è stato inserito e di cui, dunque, non si parla nel saggio) ovvero il rapporto tra poesia e spiritualità, la confluenza tra canto e preghiera. Impossibile e impensabile parlare in un’opera di tutto ciò che si vorrebbe; questo fa del libro in oggetto un’opera volutamente aperta, disponibile a innesti e interfacci, a dialoghi e confluenze, ricerche e meditazioni e, ancora, a argomentazioni in continuo divenire in linea con lo sviluppo dei tempi. Alcune pagine, tra le più sostanziose del volume, credo siano quelle dedicate alle forme artistiche sincretiche che prevedono commistioni tra arti differenti e commistioni di sfere sensoriali in apparenza inconciliabili, frutto di reali opere d’arte, happening, costruzioni in presa diretta.
Da poeta, come vede il futuro della poesia?
Ho avuto modo di riflettere su questo nell’Inchiesta sulla poesia di cui abbiamo parlato, suggestionato anche dalle considerazioni, diversificate quando non addirittura antagoniste, di vari intervistati. La domanda contiene al suo interno già una risposta che fa ben sperare, anticipando un segno positivo che ci auguriamo possa essere coltivato e sperimentato nei prossimi anni, decenni e così via. Il domandare quale sarà il futuro della poesia implica già l’idea che ci sarà un futuro per la poesia. E questo è qualcosa di rincuorante sebbene bisognerebbe partire dalle possibili fondamenta che consentono di approcciarsi in maniera positiva fornendo questa propensione. Io credo che la poesia si continuerà a produrre nel futuro, così come si produce, instancabilmente, in forma quantitativamente alta, nel nostro oggi. Ne sono testimonianza i tanti giovani che scelgono, seguendo una sorta di chiamata vocazionale o ispirativa, questo genere per confidarsi con se stessi, analizzare il mondo, guardare e riflettere sulle circostanze reali dell’esistenza, domandarsi e tanto altro ancora. Ne sono testimonianza le grandi sperimentazioni, i tentativi di organizzazione di manifesti, di adesioni a collettivi, associazioni, centri culturali che in ogni modo diffondono e promuovono la poesia: non solo quella che i contemporanei creano ma anche quella dei poeti che, per vari ordini di motivi, non ci sono più. I piani educativi della scuola dovranno necessariamente cogliere le novità e i nuovi stili e approcci della poesia nel corso del Secolo scorso sino ai nostri giorni (e non fermarsi a Pascoli e Carducci), darne una lettura, proporne un approfondimento e contestualizzare nel giusto ambiente sociale affinché si concepisca la poesia come qualcosa di reale e vivo e non di stantio rinchiuso in polverosi libri di biblioteca. Se sembra abbastanza ovvio che la poesia continuerà ad essere presente nel futuro c’è anche da chiedersi quale tipo di poesia e chi avrà l’onere – che sempre più impellente s’impone – di analizzarla e darne un giudizio di merito affinché sia possibile riconoscere il valore dove effettivamente esso è contenuto. La poesia, e ci auguriamo la buona poesia (che è quella che sa comunicare, far emozionare e convogliare un’idea in cui il singolo si riconnetta al suo ruolo sociale e alla dimensione globale in cui è inserito), sarà quella che il critico – il chiosatore, il commentatore attento, l’ermeneuta, l’accademico – valuterà buona e significativa e al passo con i suoi tempi, valevole di essere contrassegnata come superiore per i motivi che saprà addurre e, pertanto, credo fortemente che affinché la poesia possa avere un suo senso e futuro, attualizzandosi e conservandosi con lo scorrere dei lustri, è necessario e fisiologico che non venga meno la figura del critico che non è solo colui che la valuta e dà giudizi, direziona semmai anche un mercato editoriale, ma soprattutto il medium necessario di tante opere che ci apparirebbero chiuse, distanti, invalicabili.
Lei è un attento e appassionato studioso di Federico García Lorca, straordinario poeta al quale ha dedicato nel 2016 la pluripremiata plaquette dal titolo Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca, di cui è stata riproposta una nuova edizione proprio lo scorso anno (prefazione a cura di Nazario Pardini, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino). Ci racconti il suo amore per i versi del grande poeta andaluso.
Il mio amore verso Federico (lo chiamo così anche nelle conferenze che tengo, come un amico fidato) va ben oltre la sua componente poetica che è quella maggiormente nota ai più. La conoscenza dell’autore è relativa al periodo universitario, quando un corso monografico molto interessante proponeva lo studio dell’ambiente della Residencia de Estudiantes di Madrid e la generazione del ‘27. Lo lessi (ci venivano proposte anche le cantigas in galiziano che, lo riconosco ora, non erano di certo le sue opere più semplici né, forse, le più affascinati) ma, tuttavia, non fu una scintilla istantanea. Lo riscoprii, infatti, anni dopo avvicinandomi con molta più preparazione ad alcune sue opere con particolare attenzione al teatro. Il Lorca drammaturgo, meno noto e approfondito nel nostro Paese, credo che non sia in nessun modo da considerare inferiore al suo talento lirico; lo testimonia la grandezza di opere come Yerma o Nozze di sangue (figlie anche della perspicacia e della grandezza di drammaturghi quali Eduardo Marquina e Jacinto Benavente a cui si deve almeno un cameo quando si parla del teatro lorchiano), appartenenti al cosiddetto “dramma rurale” che lo portò al culmine del suo successo, giunto in primis dal sud America e solo in un secondo momento dal suo paese che, nel periodo della dittatura (1939-1975) lo avrebbe duramente censurato. L’amore verso Federico è difficilmente spiegabile e concerne non solo l’uomo letterato (il poeta, il drammaturgo, ma anche il musico e il disegnatore, anime quest’ultime che non vanno dimenticate quando si studiano la sua persona e che sottolineano la sua grande versatilità e competenza nelle varie arti) ma la sua vicenda umana, non solo quella tragica ben nota a tutti, ma degli affetti familiari (il grande legame con la madre Vicenta), le amicizie (quelle storiche, quelle momentanee, comprese le inimicizie) con poeti, scrittori, critici, giornalisti ma anche con persone comuni (come la comunità nera di Harlem), gli amori (spesso tormentati o mal compresi), le collaborazioni, gli incontri, i viaggi, le notizie a noi giunte grazie a ricchi carteggi, testimonianze, presenze sulla carta stampata, finanche la discendenza di quella stirpe familiare dei García Lorca di cui sono in contatto con alcuni suoi pronipoti. Mi interessa molto tutto ciò che, in varie forme e con contenuti differenti, ruota attorno alla sua figura. È stato rivelato da alcuni critici come la figura di Federico, osannato come uno degli emblemi della Resistenza spagnola prima e poi come uno dei martiri del franchismo (sebbene non aderì mai in forma palese a nessuna ideologia codificata), proprio grazie alla sua sventurata vicenda, alla luminosa carriera letteraria, all’empatia, alla capacità d’ascolto degli altri, all’animo buono e fraterno, la sonorità delle liriche dal gusto neopopolare ma anche quelle avanguardiste del periodo americano, la centralità della sua presenza e figura nel contesto sudamericano (e mille altri motivi tra i quali non dobbiamo escludere i vari enigmi, le ombre ancora disciolte e che forse mai lo saranno, le varianti interpretative comprese le ipotesi poco documentate ma molto fascinose quando non addirittura ardite), abbia assunto nel corso del secolo scorso (e lo abbia mantenuto nel tempo, sino a noi) la dimensione di una vera mitologia. Federico come uno dei pochi (con alcuni distinguo, molte polemiche e altrettante lamentazioni di altri, refrattari allo spirito indomito rivoluzionario che lo caratterizzava) miti contemporanei. Espressioni autentiche e condivise su larghissima scala, in vari contesti culturali e linguistici, non solo come centrali di un’età, di una rivendicazione sociale, di un periodo letterario, di una stagione di frenetica commistione di arti, ma quale reale concretizzazione – e simbolo – di una vitalità prorompente, di immagine di giovinezza e grande consapevolezza. I miti, in fondo, evidenziano, esemplificano, simbolizzano e rendono palesi circostanze e occorrenze la cui validità sta nell’attualità e nella continua reversibilità e confluenza di contenuti. Federico è un mito in quanto a espressione di una gioventù negata che, al contempo, è stata eternizzata, si rinnova prolungandosi in un tempo infinito, senza vedere un termine né l’anticipo di una chiusa.
Ecco, dovrei dire molto altro per poter parlare adeguatamente di lui. Vi sono vari saggi pubblicati su riviste (e altrettanti inediti) che tendono a porsi alcuni quesiti attorno alla sua figura, non tanto con lo scopo di rispondere e porre un punto definitivo alle varie questioni ma, al contrario, per indagare lo stato delle cose, delle varie posizioni, vagliandole, discutendole, analizzandole in linea anche alle nuove scoperte, attestazioni, etc. Uno di questi, ad esempio, è dedicato al mistero che ancora oggi aleggia attorno alla sua voce di cui non abbiamo registrazioni sebbene, nel periodo 1934-1936, ormai al culmine del suo successo, è certo e attestato che intervenne in numerose radio, conferenze e che venne, dunque, registrato. Il dilemma se esistano registrazioni o meno non è stato acclarato e, anzi, l’idea generale è che esistano riproduzioni della sua voce, ma che non siano state localizzate. Non per mancanza di ricerche attente di investigatori quanto, forse, perché volutamente tenute nascoste da alcuni, distrutte o vendute a privati, fuori quindi dai possibili canali di un possibile recupero. Si tratta solo di uno dei tanti motivi particolarmente affascinanti attorno alla sua presenza di cui mi sono occupato. Un corposo saggio al quale sto lavorando da anni e che conto di poter chiudere a breve affronta, invece, i due viaggi americani di Federico che lo portarono in America del nord (1929-1930) e in America del sud poi (1933-1934), luoghi nei quali entrò a contatto con la cultura locale, frequentò università, tenne conferenze, scrisse poesie, opere teatrali e anche (altra cosa poco nota) un copione scenico dal titolo Viaggio sulla luna. C’è un’ampia fetta dell’opera di Federico che la gente non conosce e che, magari, leggendola, non attribuirebbe a lui, tanto sono diversi gli stili e i registri da lui impiegati. Mi riferisco alle poesie americane (si pensi a “Ode al Re di Harlem”, “Ode a Walt Whitman” e la potentissima e struggente “Ufficio e denuncia” dove il Poeta, sfiduciato e impaurito dalla società capitalista e mortifera che sperimenta nella Grande Mela, giunge a dire «Vi sputo in faccia» ma anche alle opere teatrali come Commedia senza titolo e Il pubblico dai tratti surreali, ben distanti dalla concezione canonica delle opere teatrali, con ribaltamenti, storie doppie, parallelismi, personaggi che sono animali o manichini che parlano, suggestionato forse da Cocteau, Pirandello e autori affini, oltre che da Unamuno. Opere che lui stesso definì “irrappresentabili”, non tanto per l’incapacità di un corpo attoriale di creare sul palco ma perché palesemente innovative e futuristiche, fortemente anticipatrici di caratteri e, pertanto, forse fuori contesto, non comprensibili in quanto non apprezzabili, non configurabili come vere e proprie opere. Azzardate e, in quanto tali, pericolose e incomprensibili. Spregiudicate, anche, apparentemente illogiche e, al contrario, altamente simboliche e pregne di un dramma insondabile vissuto in prima persona dall’autore per il suo sentimento di estraneità a causa della sua non accettata condizione sessuale. C’è poi tutto il mondo del folklore gitano, della musica popolare, dei suoni caldi del zorongo ma anche l’intensità e il dramma della pena negra, il fascino mozarabe, gli squarci costumbristi e l’esaltazione dell’Andalusia natale negli spazi incontaminati e nelle sue ritualità festive, finanche la tradizione della tauromachia. Insomma, un mondo prospettico e inesauribile ci viene proposto dalla figura eclettica e indomabile di Federico.
Tra le poesie racchiuse in questa sua raccolta, tutte di notevole fascino, l’appassionata rievocazione della tragica vicenda lorchiana culmina in una lirica che, personalmente, ho trovato splendida: “Non lontano dal limoneto”. «Non cercate il mio corpo: esso non c’è» lei fa sentenziare alla stessa figura dell’autore spagnolo: quanto è stato difficile ridare la parola a García Lorca?
Trovo difficoltà a rispondere a questa domanda. La mia intenzione con questa poesia, come pure con l’intera plaquette, non era esattamente quella di “ridare la voce” a Federico. La sua era già di per sé possente, altamente comunicativa, incontenibile. Impossibile riprodurla e dovrei dire anche inutile dal momento che io – e spero molti altri come me – la percepisco ancora piuttosto presente, il suo verbo è messaggio costante che ritorna e accompagna le giornate. In questa poesia è la Terra a parlare, la dimensione arenosa della terra secca dell’Andalusia dove Federico pare sia stato inumato dopo la nefanda esecuzione sommaria. È la Terra che parla e, attraverso di essa, lo stesso poeta che in quella materialità ancestrale è disciolto, diffuso, tutt’uno con l’humus, ormai inscindibile da ogni componente organica. L’anima del Poeta, a differenza, è permanente e vaporizzata, ubiqua e onnipresente, essa ci contorna. Ho pensato che solo interrogando la Terra, talvolta anche con un tono inquisitorio e un fare impetuoso, fosse possibile avvicinarsi alla sua materialità disciolta. Eppure la lirica è un colloquio con l’essenza, con l’anima, col principio primo, con l’eco, con le multiformi e imprendibili sfumature della sua vivida e rassicurante presenza. È la capacità – credo data ai pochi – di colorare strascichi d’assenza con messaggi variegati e ammicchi empatici di chi, al di là di spazio e tempo, sa colloquiare, testimoniare sé stesso, offrire la sua amicizia.
Quale tra le sue pubblicazioni è stata quella che finora le ha dato le maggiori soddisfazioni, non necessariamente in termini di vendita? E quali, tra i tantissimi e importanti riconoscimenti ricevuti nell’ambito dei premi letterari, sono stati quelli finora per lei più significativi?
Quanto alla prima domanda devo dirle che le soddisfazioni, quando penso ai libri (o per lo meno ai miei) non derivano da questioni tecniche e sterili (seppur importanti) in termini di vendita, ma, al contrario, dalla capacità – che non è mai qualcosa di sicuro e dunque che non può esser dato per scontato a priori – di “arrivare” al cuore del lettore, vale dire nel saper lasciare una traccia, animare una domanda, incuriosire e, perché no, anche creare confusione, farlo sentire depistato, cercare comunque di avere una qualche tipo di risposta, più o meno automatica. Posso, però, dire che tra i miei lavori (per lo meno da quanto mi è stato comunicato dagli editori) molto apprezzata è stata l’antologia poetica da me curata nel 2016 per i tipi di PoetiKanten Edizioni di Firenze in due volumi interamente dedicata alla poesia della regione alla quale appartengono: Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana. Anni fa anche il volume di racconti La cucina arancione, edito per TraccePerLaMeta di Sesto Calende (VA), andò abbastanza bene e suscitò grande attenzione, ma ciò fu dovuto (anche, o addirittura soprattutto) a una meticolosa attività di promozione per mezzo di numerose presentazioni del volume in varie regioni d’Italia.
Tornando, invece, alla sua seconda domanda, posso dire che tra i premi che personalmente reputo maggiormente significativi tra quelli che mi sono stati attribuiti (non me ne vogliano gli altri, chiaramente) ci sono il Premio Tulliola di Roma, il Premio Atrolabio di Firenze, il “Mario Arpea” di Rocca di Mezzo (AQ), il Premio “Le Rosse Pergamene” di Roma, oltre al “Camaiore” dove più volte sono risultato finalista con l’opera di poesia edita.
In chiusura, può regalare ai lettori una sua poesia (o uno stralcio di versi tratto da essa) a cui tiene in modo particolare?
Poco tempo fa sono stato ad Assisi dove, presso la prestigiosa Sala della Conciliazione del Palazzo dei Priori (Comune), si è tenuto un evento-conferenza dedicato a Federico García Lorca. Il 18 agosto scorso è caduto il doloroso anniversario – l’ottantacinquesimo – della sua morte e vorrei proporre un breve estratto di una delle numerose poesie da me scritte a lui dedicate uscita recentemente nel nuovo libro di poesie, Il restauro delle linee, per i tipi di Ensemble di Roma. Questo estratto figura nella cover del volume e si riferisce a un passaggio della poesia “Coltivo il suono che s’impadronisce” nella quale, come avvenuto nella precedente “Non lontano dal limoneto” (presente in Tra gli aranci e la menta, 2016), mi riferisco a quell’assillo che è mio e di tanti critici e studiosi nel ricercare di dileguare ombre dagli ultimi istanti della vita del poeta, cercando una risposta concreta su dove realmente si trovino i suoi resti mortali. L’urlo, al quale la poesia si riferisce, è quel richiamo antico, quella ricerca continua, l’interrogazione della storia, la volontà di conoscere, di cercare una scappatoia alle probabilità che si autoriproducono, per accogliere l’eco sonoro della presenza di chi, indecentemente e dittatorialmente, venne sottratto alla sua estate granadina: «La polvere che si forma non è / di terra che sfiata, né di vecchio: / solo ragione che si scaglia e fa trucioli. / Sono ancora qui che sollevo / quell’urlo atroce che non si sente».
Grazie per avermi concesso questa intervista con domande tanto varie e importanti, tese a tracciare molti degli aspetti della mia attività letteraria e culturale.
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Ringraziamo Lorenzo per questi versi, che invitano alla lettura dell’intera raccolta Il restauro delle linee, e tutte le approfondite e interessanti risposte, con l’augurio di buon lavoro e nuove soddisfazioni letterarie.
Per chi volesse seguirlo e conoscere meglio la sua attività, si segnala il blog personale dell’autore: https://blogletteratura.com/