“Ogni notte scrivo qualcosa”, la raccolta di scritti di Carlos Correas
Carlos Correas è stato uno dei più grandi scrittori argentini. Ma non solo, fu filosofo e saggista. Fu forse il primo, in Argentina, ad affrontare i temi legati alla cultura omosessuale. Oggi pubblichiamo la traduzione di un interessantissimo articolo apparso sulla bella rivista letteraria argentina Pagina12. L’articolo è consultabile nella sua versione originale cliccando QUI ed è a firma di Fernando Bogato (NdR)
“Salvato” in ondate successive dagli anni ’90 ad oggi, Carlos Correas è stato uno degli intellettuali più impegnati ad esplorare la marginalità in tutte le sue manifestazioni, anche se questo gli ha procurato un’eccessiva aura di maledizione che forse non ha né cercato né coltivato. Filosofia, letteratura, televisione, campo culturale e quotidianità sono i suoi interessi che si riflettono nei saggi, testi e interviste raccolti in Every Night I Write Something, appena pubblicato da Mansalva: un interessante complemento all’approccio a libri come La Operación Masotta oppure I reportages di Félix Chaneton che offrono una lettura intima di Correas oltre il mito. (De la entrevista de Jorge Quiroga en la revista El juguete rabioso, 1985).
Lontano dal profilo dato da una certa aura di “maledizione”, Carlos Correas (Buenos Aires, 1931-2000) è stato un metafisico. Legato al sottogruppo degli esistenzialisti all’interno della rivista Contorno, dove condivide il lavoro con Juan José Sebreli e Oscar Masotta, segnato dal fuoco di uno dei casi più controversi di censura letteraria che si sono verificati nel nostro paese, Correas ha in gran parte una vita ai margini che non sembra emergere almeno fino all’inizio degli anni ’80, quando torna a pubblicare. Questo “silenzio” non è la cessazione di un’attività intellettuale: infatti è ancora legato al mondo accademico, e gran parte dei testi raccolti in Ogni notte scrivo qualcosa, frutto del lavoro di Jorge Quiroga e Federico Barea, sebbene datati per la maggior parte dopo gli anni Ottanta, sono in parte il risultato di quella lunga rimuginazione che in parte ha seguito il mandato di Epicuro: “vivere nella clandestinità”.
Nel libro pubblicato dall’editore Mansalva, quello che abbiamo è un tour completo dell’arco intellettuale che Correas ha disegnato ad ogni apparizione. Interventi frammentari, certo, poiché la sua prosa sembrava approfittare dei prologhi e degli articoli per un lavoro di condensazione impeccabile, erudito ma non zeppo di rimandi, che voleva suggerire e indicare piuttosto che dire. Tecnica microscopica che condivide con Borges, inevitabilmente, senza però rendergli omaggio.
È un merito poter “parlare di tutto”? Dipende, perché corri il rischio di perdere la tua specificità e diventare un “opinionista” che ha qualcosa da dire su qualsiasi cosa. Correas sembra farlo, ma sfugge alla trappola reindirizzando le sue osservazioni al campo metafisico, dove ogni situazione specifica consente di leggere la tensione tra idea o forma e corpo. Lezione appresa dall’esistenzialismo sartriano, l’abbiamo già detto, che, insieme alle flânerie di via Corrientes e alla pratica dell’omosessualità portata all’etica intellettuale, alla tendenza a non negarsi nulla, non disgustava nessun soggetto, e trovava nella situazione più banale qualcosa di interessante, tanto da fare due cose: invitare alla riflessione e scandalizzare. Forse, quella fama da presunto scrittore maledetto andrebbe pensata con la stessa accezione con cui l’ha intesa Masotta nell’intellighenzia argentina: una “operazione” che, in fondo, sfrutta il margine, come luogo e come attualità, per promuovere un modo di vivere e pensare.
KANT CON KAFKA
Due nomi compaiono con insistenza nelle pagine di questo libro. Il primo è Kafka. Il secondo è Kant. Sebbene ci siano Sartre, Marx, Perón, Kierkegaard, lo scrittore ceco e il filosofo tedesco condividono un posto preferenziale che consente di attraversare, a un certo punto, una possibile modalità di combinazione. Da quest’ultimo, Correas osserva che dalla sua biografia si estrae un fatto estremamente interessante da mettere sotto la lente d’ingrandimento: il fatto che Kafka abbia difeso la sua unicità, quella stretta non connessione con qualsiasi donna o il suo modo di rimandare e poi cancellare vari impegni. Come rileva lo studio preliminare a La metamorfosi (scritto per un’edizione dell’anno 2000), ciò che si osserva in primo piano nell’opera dell’autore sono due temi: la famiglia e il lavoro. La “scrittura comunitaria” di Kafka apre all’insistenza sull’enigma delle relazioni tra le persone e sulla difesa di un modo di vivere senza impegni stabili che consente un legame più perfetto e chiuso, esclusivo, con la letteratura. La “vita abbietta” di Kafka può essere giustificata solo se c’è la possibilità di scriverla, di raccontarsi letterariamente, e, a sua volta, la letteratura deve essere un movimento per poter portare il mondo empirico in un nuovo luogo, elevandolo, come scrive Correas-Kafka, “al puro, al vero, all’immutabile”.
La letteratura come “metamorfosi” la realtà quotidiana come qualcosa di vicino all’ideale, senza perdere la sua enclave nel mondo, il suo corpo. Non c’è opposizione lì, ma semmai un passaggio: il corpo è il modo in cui l’anima è nel mondo, non uno strumento al servizio dell’anima, dirà in altri articoli. Per questo il dato che sembra non avere posto in modo preminente nel recupero critico contemporaneo di Kafka e che Correas mette in luce è il suo posto nei bordelli, il suo legame con le prostitute. Questo dato biografico va letto come parte di una consegna alla letteratura che sospende l’articolazione istituzionale del matrimonio per realizzare questo progetto di elevazione: l’auspicata “bella donna” appare come tema della sua opera insieme all’ombra del padre. Per trasformare questi elementi, nel primo caso, viene scritta una lunga corrispondenza, con Milena o con Felice, fatta essenzialmente di rinvii invece nel caso di quest’ultimo, la “Lettera al padre”. In entrambe le operazioni c’è lo sforzo di trasformare il fascino o l’angoscia in testo, come parte della costruzione del mondo bello che ci libera da quelle passioni quotidiane.
Per quanto riguarda Kant, Correas sembra trovare un filosofo che fissa i problemi centrali che possono poi essere letti sotto una lente di ingrandimento più contemporanea, cioè sotto una riflessione segnata dal tanto citato esistenzialismo. E non è che sia un antecedente tutt’altro, ma torna a Kant per trovare una via che permetta questa riflessione metafisica intesa come tensione tra realtà e rappresentazione. Il percorso di Kant che critica Swedenborg in Dreams of a visionary, chiarito dai sogni della metafisica (1766) consente non solo la proposta dell’idealismo mistico, ma anche il percorso dell'”idealismo onirico”, che fa il percorso inverso di Kafka: “Girare mere rappresentazioni in cose reali.” In Kant c’è un “sogno della metafisica” che ci permette di vedere la rappresentazione, l’ideale, mentre entra nel mondo reale. Probabilmente, una modalità di incarnazione dell’ideale. Ma, seguendo lo stesso ragionamento, il posto particolare che il corpo ha per Correas potrebbe essere compreso in quel tandem tra carne e spirito: “Il rapporto dell’anima con il corpo è un rapporto dell’essere; l’anima è il corpo, poiché l’essere umano è la sua stessa individuazione, e il posto che l’anima occupa in questo mondo è dovuto al fatto che essa è in quella specifica relazione con il corpo”.
L'”operazione K”, quindi: Kafka e Kant appaiono come nomi di due movimenti che non possono essere pensati come opposti, ma come complementari, in quanto estremi di un’altalena che Kant trova in Swedenborg e che Kafka consente nella sua letteratura e nelle sue visite alle “piringundines”. Ed è anche un modo di intendere lo stesso Correas: il quotidiano e il volgare, il lumpenaje (lumpen) e il basso, possono essere modalità specifiche di materializzazione dello spirito e “situazioni” di un’anima che si esprime. L’anima è, per Correas, quell’istanza formale che contiene il corporeo e ne evita la disgregazione, nello stesso modo in cui il corpo è il modo per l’anima di abitare il mondo. Come sembra per tutti i legami di Correas, anima e corpo sono in tensione, ma insieme.
LA LEGGE E IL MARGINE
Correas incontra Sebreli e, tramite Sebreli, Masotta e i giovani della rivista Contorno. La sua partecipazione alla rivista è scarsa, ma Correas capisce che in quel momento si stava formando una sorta di militanza intellettuale che andava di pari passo con il vagabondaggio notturno, entrando e uscendo dalla Facoltà di Lettere e Filosofia, e abbracciando quell’idea di Male come ascesi cioè a San Genet, comico e martire di Sartre. Il male, certo, inteso come un modo per corrodere la morale borghese, per dissolverla, per scandalizzarla: la santità ascetica del male, una sorta di credo che adottò per quel lungo silenzio in termini di pubblicazioni che va dal 1960 a Kafka e suo padre (1983), I resoconti di Félix Chaneton (1984) e, poco dopo, il suo libro più celebre: Operazione Masotta: quando fallisce anche la morte (1991). C’è un lungo processo di riscoperta di Correas che ha tappe abbastanza recenti, come l’uscita del documentario di Emiliano Jelicié e Pablo Kapplenbach Ante la ley (2012), o l’antologia della rivista Centro edita dalla Facoltà di Filosofia e Lettere dell’UBA, dove viene ristampata la vicenda che lo ha portato davanti alla giustizia per la pubblicazione di materiale pornografico, nonché l’apparizione, sempre con Mansalva, del libro Los Jóvenes. Quella condanna che ha pesato sulla sua vita intellettuale quando ha scritto una storia in cui si narra l’ascesa di un ragazzo e la storia d’amore al confine tra Capitale e Provincia è senza dubbio una cicatrice nella sua biografia. Legami, in quel tempo che va da “La narrazione della storia” fino ai suoi libri degli anni ’80,quando ha abbandonato l’omosessualità (lo dice lui), si è impegnato a pieno titolo per arrivare alla laurea, ed è diventato professore sia all’UBA che alla Kennedy University per arrivare, nel 2000, a suicidarsi. Ma bisognerebbe fare uno sforzo per pensare l’opera di Correas oltre quel segno: la sua letteratura non ha a che fare con il diritto, ma con gli incontri, i legami, la tensione tra il basso e l’alto, ma parte da una legge appena accennata, tutt’al più implicitamente contestata. Il metafisico, e quindi impegnativo Correas è più interessante di quello dannato, e questo sembra essere ciò che fa coesistere opere così diverse in Every Night I Write Something. Bisogna inventare un nuovo Correas, proprio come scriveva Kafka di suo padre, per uscire dalla sua orbita. Scrivi di Belts per uscirne e ritrovarlo: un sogno metafisico o mistico, ma, alla lunga, un sogno, un desiderio, ancora in attesa di realizzazione.
Alcuni frammenti da Ogni notte scrivo qualcosa
IL PADRE E IL NIPOTE
Il dottor Mariano Grondona è mio padre e Mario Pergolini è mio nipote. Questo legame di parentela non è biologico; è più forte; è istinto e dottrina. È nato in televisione e ha attraversato solitudine e vento, tra feci e urina. La televisione mi ha generato e nutrito, non senza bizzarrie, ma è così che l’epoca mi ha destinato; Ho vissuto mille ere, ma ora sono io stesso questa. Con un padre biologico morto nella mia adolescenza e senza aver avuto nipoti, come potrei non essere necessariamente spietato e ingrato e dirigere la mia riverenza verso quell’unità così naturale e tenera che Mariano Grondona e Mario Pergolini, miei parenti adottivi, mi danno in spirito?
Una vicina di casa e amica inizialmente mi ha raccontato, tra ammirazione e allarme, di Mario e altri analoghi: “Guardali. Puoi dire che hanno bisogno di molto affetto. È tremendo. Cagano su tutto”. Contavano già sul mio tanto affetto, ma “cagare su tutto” mi metteva a disagio, mi contraeva e mi tendeva. Diventerebbero elementi radicalizzati? Era diventato redditizio “cagare su tutto”? Cagherebbero anche sul denaro, sulla proprietà privata, sull’ordine pubblico, sulla Costituzione nazionale, sulla sicurezza dello Stato, sulla giustizia, sulla probità, sul bene comune, sullo stato di diritto, sulla signoria, sulle famiglie argentine e persino nel divieto di incesto? No, non perdiamo la speranza che non sia così!
Marito fonda e riflette il linguaggio rustico orale del popolo; è plebeo e rivendica la volgarità. Pertanto, mi influenza quando mi riferisco al mio padre spirituale Grondona, questo mio vecchio. Come Dio, Grondona è ovunque; Piango sulla carta per questo mio vecchio furbo e accorto. Gli antenati, il “nostro” e il “noi”, la gente, la strada, le cazzate, la famiglia: sono entità; appartengono, nella loro origine, a quella che si chiama metafisica. Con Grondona e Marito la metafisica è entrata a pieno titolo nella televisione argentina. Dottor Mariano Grondona e Mario Pergolini: OH DECHEDS!
Estratto da “Mariano Grondona e Mario Pergolini sono una famiglia”, su La Letra Magazine, 1993)
ESSERE ANTI ANTIPERONISTA
Il nostro non era affatto un peronismo di militanza di partito. Non siamo mai andati ad offrire i nostri servizi come intellettuali a nessuna Unità Base. Nemmeno noi occupiamo mai alcuna posizione ufficiale. Era come una sorta di inclinazione affettiva, in un certo senso, e in accordo con certe politiche attuate dal peronismo che si sono concretizzate nei fatti, no? Forse, più che peronisti, un’espressione che ho fatto io: eravamo anti-anti-peronisti. In altre parole, vivevamo circondati da antiperonisti, per una questione di classe. Anche a partire dalla famiglia; mio padre e mia madre erano anti-peronisti arrabbiati. E anche con sfumature di razzismo. E poi un altro ambiente, al di là di quella cerchia immediata, gli intellettuali, diciamo. Ebbene: i Viña erano antiperonisti. Eravamo molto affezionati a Eva Perón. Quindi questo era il nostro anti-peronismo.
(Estratto da “La filosofia nella privacy”, intervista collettiva a El Ojo Mocho, 1996)
CONTORNO INTIMO
Con il mio racconto “Il racconto della storia” apparso sulla rivista Centro nel dicembre 1959 ci fu più di uno scandalo. Era una storia con argomenti e fatti omosessuali. Prima uno scandalo domestico, per esempio che Germán Rozenmacher, all’epoca compagno di studi, mi disse che lui e un gruppo di amici trovavano accettabile la mia storia, tranne che due ragazzi si baciassero sulla bocca. In secondo luogo, lo scandalo giudiziario, il processo, la condanna per “pubblicazioni oscene”, il sequestro e il divieto di Centro. La storia mi è valsa anche l’editoriale “Confusión y misvío” del quotidiano La Nación del 17/05/1960, che diceva che la mia storia, non perché scritta, poteva essere considerata all’interno della letteratura, poiché cadeva piuttosto nel campo del patologico. Mi è giunto uno dei tanti echi della più alta moralità e del sano potere della polizia dottrinale da cui parla La Nación. Sono stato debitamente, se non eccessivamente, represso.
Sono arrivato alla rivista Contorno tramite Juan José Sebreli. La mia partecipazione scritta è stata molto scarsa: una storia a tema omosessuale e una critica a Il giudice di H. A. Murena, e la mia partecipazione programmatica è stata nulla o del tutto periferica. Contour per me è stata un’esperienza intima; ecco l’esperienza: la scoperta di nuovi rapporti umani. Con Sebreli eravamo amici da molto tempo. E David Viñas, con la sua, nel mio caso, dedizione massiccia, aderente, mi ha dato, credo il primo della mia vita, rispetto, in un momento in cui mi sentivo rispettabile e forse non lo ero. Ecco un’altra esperienza, una esperienza di me stesso: ero indiscriminatamente ignorante, rabbioso, randagio e aspiravo, senza tanta fortuna, alla desolazione, alla promiscuità, alla segretezza, alla fortissima facilità della perversità. Ero naturalmente patetico, il che mi ha reso ancora più furioso. E con Oscar Masotta ho scoperto l’amicizia pura. Non eravamo tanto interessati al contenuto del nostro lavoro futuro, ma al successo letterario e al nostro futuro modo di essere. Sebreli, Masotta ed io formavamo un gruppo a parte. Eravamo tre primitivi indefiniti, vivevamo in circoli viziosi e con l’ambizione di essere fermamente offensivi e predatori. Avevamo 22 anni. Oscar Masotta diceva: “Se non possiamo produrre opere che siano ‘pietre miliari’, allora come ultima via d’uscita per essere famosi scriviamo un romanzo pornografico e basta”. E anche: “Dobbiamo fissare una scadenza. Questo sarà il nostro progetto culturale: a quarant’anni dobbiamo essere già diventati molto intelligenti, belli, crudeli”. Ho aggiunto: “E molto troie”.