La musica nella Divina Commedia.
Di Adriana Sabato
Il 2021 sta per finire ma il settecentenario della morte di Dante Alighieri, avvenuta a Ravenna, suo luogo d’esilio, nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, certamente non conclude una storia che ha ancora molto da raccontare.
Dante fu cronista del suo tempo e attraverso i suoi scritti, attraverso la sua cultura volle anche esprimere tutte le incertezze, le paure, la solitudine, la voglia di giustizia. Condizione, questa, generata dal fatto di essere stato esiliato dalla sua città, la sua Firenze.
Leggere la Divina Commedia, specie in ascolto immersivo, nonostante la scrittura in lingua volgare e dunque non comprendendo appieno il significato delle terzine dantesche, è un’esperienza catartica.
Aristotele nelle sue opere Poetica e Politica definisce la catarsi come un fenomeno estetico grazie al quale l’uomo si rasserena dalle proprie passioni violente e perturbanti tramite la poesia e la musica.
La scrittrice Donata Salomoni evidenzia il fatto che dietro il significato della parola catarsi si svela un mondo emozionale grandioso.
Dante lo sapeva bene perché lo sperimentò obtorto collo durante il suo peregrinare: la scrittura fu in mano sua un’arma efficace e potente e lo è ancora oggi da settecento anni in qua.
E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce
tintinno a tal da cui la nota non è intesa,
così da’lumi che lì m’apparinno s’accogliea per la croce una
melode che mi rapiva sanza intender l’inno ..
E come la giga e l’arpa, con l’armonica accordatura (tempra)
delle loro corde tese creano un suono dolce (tintinno)
per chi non comprende le note, così dalle anime
che mi apparvero in quel luogo si diffondeva (s’accogliea)
lungo tutta la croce una melodia che mi affascinava,
senza comprendere il senso dell’inno.
(Dal XIV canto del Paradiso).
Anche se non comprendiamo bene il significato dei suoi versi e ricorriamo dunque alla parafrasi, resta, nel succedersi dei versi, una bellezza che ha dell’incomprensibile.
Ma la metrica italiana, spiega Mario Macioce, si basa sugli accenti: se gli accenti principali cadono nei punti giusti, il verso ha un bel suono, è armonioso, tende a fissarsi nella memoria.
Grazie a questo straordinario processo mnemonico basato sull’armonia dei versi Primo Levi chiarì al Pikolo del Kommander, il precetto di non vivere come animali, di non perdere la propria dignità. Nel romanzo Se questo è un uomo scrisse che ad Auschwitz, citando il verso tratto dal Canto di Ulisse fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza, riuscì a spiegarsi nonostante la traduzione frettolosa e lo studente alsaziano capì subito l’importanza di quel passo che rappresentava per loro un’ancora di salvezza in mezzo alla deriva.
E, a proposito del ritmo, prosegue Macioce se gli accenti sono fuori posto, il ritmo è dissonante o manca del tutto, e il “verso” suona come una semplice frase in prosa.
Un esempio:
Tanto gentìle e tanto onèsta pàre
la donna mìa quand’ ella altrùi salùta ..
La mia donna quando saluta altrui
pare tanto onesta e tanto gentile: diventando priva di musicalità.
Il poeta, scrive Mario Pazzaglia subordina la metrica alla musica in quanto arte dell’armonizzazione dei suoni anche verbali.
Il verso in endecasillabi strutturato in terzine ABA BCB CDC acquisisce un’importanza fondamentale nella Divina Commedia in cui diventa un’unità ritmica e sintattica basilare. Se l’endecasillabo è il verso più usato dal Duecento a oggi, ciò deriva non solo dalla versatilità, ma anche dall’autorità dell’esempio dantesco. Dante gli conferì grande varietà ritmica e libertà.
È stato detto giustamente che come Machiavelli pensa per dilemmi, Dante pensa per terzine. Nella terzina dantesca ha particolare importanza la rima che getta un ponte inaspettato tra parole lontane, ottenendo di accrescere lo spessore semantico del testo e la sua intensità, come nel III Canto dell’Inferno:
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ‘l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.
E poi c’è la musica come immagine sonora, specialmente nella prima cantica: l’Inferno. Qui Dante cita gli strumenti musicali, ma non inserisce musica: nessuno strumento suona c’è solo rumore.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
Risonavan per l’aere sanza stelle
Perch’io al cominciar ne lagrimai
Qui sospiri, pianti e forti lamenti risuonavano per l’aria priva di stelle, per cui io, che li sentivo per la prima volta, piansi.
Lingue diverse, pronunce orribili, parole piene di dolore, esclamazioni d’ira, voci acute e deboli, e insieme ad esse un battere di mani.
Ci sono le zampogne, le campane, il corno di Nembrod, i tamburi: anche nelle altre due Cantiche ci sono gli strumenti, ma non c’è nessuno a suonarli.
D’altronde nell’Inferno non può esserci musica, nulla deve apportare alcuna forma di sollievo ai dannati, la musica è assente.
L’inferno è territorio oscuro, è negazione di qualsiasi atto che possa far levitare l’anima.
Tuttavia la musica come sensazione di sonorità c’è: nell’Inferno è dissonanza, rumore, è un tappeto che fa da sfondo ma non è a sè stante, non è isolato. È mirabilmente intrecciato con tutto ciò che compone questa immensa partitura e che immette la spiegazione, nei luoghi del Paradiso e del Purgatorio, della dolce melodia che correva per l’aere luminoso e dell’armonia tra queste rote.
La migliore conclusione è racchiusa nelle parole del grande Maestro Riccardo Muti che nel definire la musica si rifà comunque a Dante… s’accogliea per la croce una melode che mi rapiva sanza intender l’inno .. La musica è rapimento, non comprensione. Critici musicali, tutti a casa! Non c’è niente da comprendere. Come diceva Mozart, la musica più profonda è quella che è tra le note o dietro le note.