Luce colore nel Purgatorio: significati simbolici.
Di Graziella Enna
Il Purgatorio presenta una precisa collocazione spaziale e una morfologia fisica perfettamente inserite nel sistema cosmologico tolemaico utilizzato da Dante. Si innalza nell’emisfero delle acque e si configura come un’isola a forma di montagna, metafora dell’ascesa, formatasi come contraccolpo della voragine infernale. Vi regna un’atmosfera di serenità e soavità in linea con il processo di purificazione, in cui le anime giungono dalla foce del Tevere trasportate in una leggera e agile imbarcazione condotta da un angelo. La speranza della salvezza e della redenzione dal peccato sono elementi enfatizzati dalla luce e dal colore che lo rendono simile al mondo terreno, superano l’opposizione tra alto e basso, buio e luce e la visione manichea di Paradiso e Inferno, derivati dal modello pagano dell’Ade e dei Campi Elisi. È così recuperata la dimensione temporale e spaziale contrapposta all’eternità degli altri due regni e, sebbene anche il Paradiso sia caratterizzato da una luce immensa e appagante, non esiste la misura del tempo che nel Purgatorio divide l’anima, che espia le sue colpe, dalla salvezza. Luce e colore non sono soltanto una mera contrapposizione al buio infernale ma acquistano precisi significati simbolici in vari luoghi della cantica che è necessario analizzare per comprenderne la funzione. Il primo passo in cui appare una connotazione inerente al colore, si trova nei versi 13-18 del primo canto. Dante si muoverà su una tavolozza di colori in tutto il Purgatorio, essi saranno sempre delicati, luminosi, chiari, brillanti, emaneranno purezza e dolcezza in netta antitesi con l’aura morta dei versi 17-18.
Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,15
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Il colore azzurro come la preziosa pietra orientale costituisce il primo impatto visivo con un nuovo paesaggio in cui si riscoprono i colori grazie alla presenza della luce, dopo la livida e tetra oscurità infernale. Dante rivede il cielo fino all’orizzonte, in un suggestivo scenario di pace e serenità, sottolineato dall’aggettivo “dolce”, che preannuncia un paesaggio legato alla vita terrena che le anime devono sempre tenere presente, per poterlo superare, prima di accedere al Paradiso. Dante distingue lo zaffiro dal lapislazzulo erroneamente chiamato con lo stesso nome, poiché conosceva i Lapidari, libri caratteristici della cultura del tempo, in cui erano annoverate le pietre e le loro virtù. Lo zaffiro vi viene descritto come una pietra dal colore simile a quello del cielo e dotata di poteri di rigenerazione interiore, in tal modo si sottolinea il processo dell’anima del Poeta che brama allontanare da sé il ricordo degli orrori infernali e il peso del peccato. A questo si accompagna la luce del pianeta Venere che favorisce l’amore e illumina l’oriente velando la costellazione dei Pesci, come si legge nei vv. 18-21
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
Venere è il pianeta che influenza amorosamente gli uomini dal momento che Dante è convinto che gli astri esercitino influssi sugli esseri umani, come sarà più evidente nel Paradiso dalla denominazione dei cieli. Nella liturgia cristiana il pianeta Venere è detto anche Lucifero, portatore di luce, considerato come simbolo della resurrezione di Cristo che in questo contesto diviene il simbolo della vita rinnovata e dell’amore che domina tra gli spiriti purganti e Dio. L’attenzione di Dante è poi catturata da un’altra fonte di appagante luce offerta da quattro stelle che vede voltandosi alla sua destra, vv.22-24.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.24
Le luci delle quattro stelle rappresentano allegoricamente le virtù cardinali, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, che devono sempre guidare un perfetto cristiano. Pertanto la loro luce è stata vista solo dall’umanità pura e incorrotta del Paradiso Terrestre, la “prima gente”, ma non è più visibile dopo il peccato commesso. Le luci sante fregiano di luce il volto del custode del Purgatorio, Catone, personaggio, come è ben noto, che si presta ad un’interpretazione allegorica e figurale. (vv.37-39)
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
E’ chiaro il valore simbolico della luce delle stelle che identificano Catone con l’essenza delle virtù cardinali: egli, pur essendo pagano, è illuminato dalla grazia divina. Dante perciò deve inchinarsi al suo cospetto perché ancora il suo sguardo non può sostenere la luce abbagliante della grazia di Dio.
Nell’incipit del secondo canto possiamo trovare altri versi riguardanti il cielo e la sua luce, esposti mediante una complessa perifrasi: è l’ora del tramonto nell’emisfero delle terre emerse, il cui meridiano sovrasta Gerusalemme, è notte nel Gange in congiunzione con il segno zodiacale della Bilancia, è infine l’alba nel Purgatorio. Con questa elaborata descrizione astronomica si prefigge diversi obiettivi: innalzare il tono dello stile della cantica, mostrare l’ordine dell’universo come specchio della volontà divina, umanizzare lo spettacolare quadro paesaggistico del cielo tramite la personificazione mitologica dell’Aurora. Essa è infatti rappresentata con le guance dapprima bianche e vermiglie, che poi diventano arancioni, (cosi come il cielo al principio del giorno da bianco si fa rosso), e infine giallo-arancioni al sorgere del sole, quando avanzano i suoi raggi. Boccaccio trovò quest’immagine così piacevole e decorativa da utilizzarla come incipit della terza giornata del Decameron: “L’aurora giá di vermiglia cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia”.
vv.1-9
Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto
lo cui meridïan cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;3
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;6
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov’i’ era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Sempre nel secondo canto il lettore è rapito da un’altra nota di colore introdotta di colpo e accompagnata da una similitudine utile a dare l’idea della sua intensità: come il pianeta di Marte appare nel cielo, rosseggiante per i densi vapori in cui è avvolto, così a Dante appare nel suolo marino una luce che avanza rapidissima da superare qualunque altro volo
vv.13-18
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino,15
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
Vorrebbe domandare spiegazioni alla sua guida ma all’improvviso vede il bagliore divenire più luminoso e apparire macchie bianche e indistinte. Si tratta dell’angelo nocchiero, la prima creatura celeste che Dante incontra nel Purgatorio: la luce rapidissima è il suo volto, le macchie candidissime sono la veste e le grandi ali ben dritte ed elevate.
Canto II 19-27
Dal qual com’io un poco ebbi ritratto
l’occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.24
Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
Il suo compito è quello di traghettare le anime, destinate al Purgatorio, dalla foce del Tevere alla spiaggia dell’isola-montagna. E’ evidente la netta contrapposizione con il traghettatore infernale, Caronte. Ancora più palese è la simbologia del colore bianco che attiene al campo semantico della purezza e della santità, così come le ali drizzate verso il cielo indicano l’ascesa del cristiano al cielo. Al suo cospetto il Poeta è costretto ad abbassare lo sguardo perché non può sostenerne il candore e la luminosità, simboli dello splendore divino di cui non è degno non avendo ancora intrapreso il suo percorso di purificazione. L’episodio, per questo motivo, può essere messo in relazione con il sopraccitato incontro di Dante e Catone: entrambi dimostrano che il pellegrino deve palesare la sua umiltà, virtù fondamentale nel percorso di purificazione.
Luce, splendore, candore si arricchiscono nel corso nel poema con i colori di fiori e giardini, aspetti che rendono il regno della purificazione simile a quello terrestre. Il primo luogo è la valletta dei principi negligenti altro spazio sito nell’antipurgatorio. I due poeti, accompagnati da Sordello imboccano un sentiero che conduce ad un avvallamento dove attenderanno il nuovo giorno. La valletta che si presenta ai loro occhi, è un trionfo di erbe, fiori, colori e profumi in un’enumerazione di oggetti volta a rappresentare i vari colori che richiama alcune liriche stilnovistiche di Guinizzelli, Cavalcanti, Lapo e Folgòre[1]. Sono citati i colori dell’oro e dell’argento puri, il rosso della porpora, (chiamato “cocco” perché estratto dalla cocciniglia), il candore della biacca, il colore del legno indiano, del cielo sereno e dello smeraldo appena estratto: tutti questi appaiono meno luminosi rispetto al colore dei fiori e dell’erba di quella valletta in cui si spandeva anche un dolce e gradevole olezzo. I principi negligenti, che nella loro vita si occuparono più delle cose terrene che di quelle spirituali, vi devono dimorare tanto tempo quanto vissero. La valletta mostra evidentemente i connotati di un locus amoenus e ha diversi significati simbolici legati proprio all’abbondanza di fiori, colori e bellezza. Il rimpianto della natura perfetta e incontaminata della poesia classica si sposa perfettamente con il compianto della degenerazione della propria discendenza da parte dei principi, descritta da Sordello a Dante e a Virgilio nei versi successivi. I commentatori antichi, inoltre offrono anche un’interpretazione allegorica della valletta paragonando la bellezza dei fiori ed i soavi profumi agli onori e alle dignità terrene dei principi: come i primi sono destinati ad appassire e a seccarsi, così le signorie e i regni sono destinati al declino. Ne è prova il canto del “Salve regina” intonato dai principi in cui il verso “ad te clamamus exules filii Evae” rappresenta la supplica dei penitenti che vogliono uscire dal loro esilio per intraprendere il cammino della purificazione pronti a deporre ogni gloria terrena e vanità mondana.
VII 73-84
Oro e argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,75
da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto.81
’Salve, Regina’ in sul verde e ’n su’ fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.
Nel XXVIII canto Dante incontra Matelda, l’enigmatica e leggiadra figura femminile che sembra quasi danzare sul prato fiorito del Paradiso Terrestre, mentre coglie fiori. Con movenze delicate e dignitose alza lo sguardo, prima tenuto pudicamente abbassato, verso il Poeta. I colori intensi dei fiori, il rigoglio perenne della natura, la purezza luminosa delle acque dolci come nettare, non fanno che preparare il lettore alla spiegazione di Matelda sulla natura del luogo, che rappresenta lo stato felice dell’uomo, la primavera eterna, che Dio creò per l’umana specie ma che è ormai un paradiso perduto.
52-57
Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,54
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
Il vero trionfo del colore e della luce di tutta la cantica è tuttavia contenuto nel Canto XXIX quando Dante assiste ad un’incredibile processione simbolica nel Paradiso Terrestre. Matelda lo esorta a fare attenzione a quello che vedrà. Una luce repentina, a guisa di un lampo, attraversa la foresta, ma non istantanea come una folgore bensì duratura, sempre più splendente e accompagnata da una dolce melodia.
vv.16-23
Ed ecco un lustro sùbito trascorse
da tutte parti per la gran foresta,
tal che di balenar mi mise in forse.18
Ma perché ’l balenar, come vien, resta,
e quel, durando, più e più splendeva,
nel mio pensier dicea: ’Che cosa è questa?’.21
E una melodia dolce correva
per l’aere luminoso;
Dante è estasiato, il suo animo è in uno stato di sospensione immerso in cotanta beatitudine che gli fa pregustare delizie ancora maggiori, quando un fuoco infiamma l’aria sotto i rami verdi e il suono si muta in canto.
Mentr’io m’andava tra tante primizie
de l’etterno piacer tutto sospeso,
e disïoso ancora a più letizie,33
dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
ci si fé l’aere sotto i verdi rami;
e ’l dolce suon per canti era già inteso.
Dante realizza di trovarsi di fronte a eventi simbolici difficili da descrivere e che rasentano l’ineffabile tanto da invocare le Muse perché lo soccorrano. Gli si parano innanzi tre luminosi alberi d’oro, falsati dalla distanza, che in realtà sono dei candelabri.
vv. 43-45
Poco più oltre, sette alberi d’oro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;45
Il gruppo dei candelabri sembra brillare più della luce della luna in una notte serena, a mezzanotte quando è piena. Il significato simbolico del cosiddetto “bello arnese”, cioè il nome collettivo con cui vengono designati i candelabri, è sottolineato dalla luce sfavillante che ne acuisce la preziosità. Simboleggiano infatti i sette doni dello spirito santo (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio), rappresentati dalle liste luminose che tracciano nell’aria; costituiscono l’inizio di una processione simbolica che ritrae la storia della Chiesa che ha il suo fulcro nella venuta di Cristo sulla Terra.
vv.52-55
Di sopra fiammeggiava il bello arnese
più chiaro assai che luna per sereno
di mezza notte nel suo mezzo mese.
Matelda rimprovera Dante perché arde di ammirazione e non riesce a staccarsi da quelle luci, precludendosi la possibilità di osservare ciò che le segue. Dietro i candelabri procedono delle persone vestite di bianco di un candore mai visto sulla terra.
vv. 61-66
La donna mi sgridò: “Perché pur ardi
sì ne l’affetto de le vive luci,
e ciò che vien di retro a lor non guardi?”.
Genti vid’io allor, come a lor duci,
venire appresso, vestite di bianco;
e tal candor di qua già mai non fuci.66
Sono concordemente interpretati come i ventiquattro libri dell’Antico Testamento: il colore bianco della loro veste e delle corone di gigli che portano in testa rimanda alla fede, sottolineando il fatto che le genti vissute prima di Cristo vissero nell’attesa della venuta del Messia e quindi ebbero fede in Cristo venturo;
Dante si ferma per vedere meglio le luci e le vede avanzare mentre lasciano dietro di sé scie colorate simili a linee disegnate da pennelli in modo tale che l’aria rimaneva divisa in sette strisce colorate con cui il sole genera l’arcobaleno e la Luna (chiamata Delia dal nome dell’isola di Delo in cui era nata Diana, identificata con la Luna), il suo cinto.
73-78
e vidi le fiammelle andar davante,
lasciando dietro a sé l’aere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;75
sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.
Dopo i libri dell’Antico Testamento vengono i quattro Evangelisti, raffigurati secondo l’iconografia tradizionale come altrettanti animali (Matteo era un angelo, Marco un leone, Luca un bue o un vitello, Giovanni un’aquila) sono coronati di verde fronda, in riferimento probabilmente al colore della speranza che è annunciata dai Vangeli.
vv92-93
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.
La grandiosa processione simbolica si completa con un carro trionfale che rappresenta la Chiesa trainato da un grifone, animale dalla duplice natura di leone e di aquila come Cristo che racchiude in sé la natura umana e quella divina. Teneva erette le sue ali tra la striscia luminosa centrale e quelle laterali per non scalfirle. Le ali del grifone erano così alte che non se ne vedeva la fine, nella parte in cui era uccello aveva le membra d’oro, in quella di leone le aveva bianche e rosse. La testa e le ali sono d’oro sono il simbolo della natura divina, le rimanenti membra bianche e vermiglie simboleggiano la natura umana: la carne dell’uomo, bianca e pura, è tinta di color sanguigno a ricordo simbolico della passione. Le ali raggiungono una tale altezza che è impossibile per occhi umani seguirle, perché Cristo, come Dio, si sottrae alla vista dell’uomo.
108 -114
Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, trïunfale,
ch’al collo d’un grifon tirato venne.108
Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
sì ch’a nulla, fendendo, facea male.111
Tanto salivan che non eran viste;
le membra d’oro avea quant’era uccello,
e bianche l’altre, di vermiglio miste.
Tre donne procedevano danzando intorno alla ruota destra , una tanto rossa che difficilmente si sarebbe potuta distinguere tra le fiamme di un fuoco, l’altra era verde come se le sue membra fossero state fatte di smeraldo, la terza sembrava neve appena caduta. Le donne erano guidate ora da quella bianca, ora da quella rossa, ora erano più lente, ora più veloci. Sono la rappresentazione delle virtù teologali, come testimonia il colore della loro figura: rosso vivo per la carità, verde per la speranza e bianco per la fede, che saranno anche i colori di cui sarà vestita Beatrice. Esse sono guidate dalla fede, mentre è la carità a dare il ritmo alla danza (la speranza è la virtù che deriva dalle altre due e da esse dipende). A sinistra del carro danzano quattro donne vestite di porpora, cioè le virtù cardinali, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza che seguono il ritmo di una di loro, la prudenza, che aveva tre occhi in testa poiché è la virtù che ha memoria delle cose passate, conoscenza delle presenti e preveggenza delle future, come Dante stesso afferma.[2]
vv. 121 132
Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;123
l’altr’era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;126
e or parëan da la bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.129
Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.
La processione simbolica del canto XXIX è il preludio ad un’altra apparizione trionfale e contraddistinta da splendenti colori, cioè quella di Beatrice, rappresentata nel canto XXX sul carro della Chiesa dentro una nuvola di leggiadri fiori sparsi in aria da mani angeliche.
vv.28-33
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,30
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
Ella è vestita con i colori rappresentati dalle tre donne che danzano sulla ruota destra, ma questa volta è solo lei a portarli indosso tutti e tre contemporaneamente, perché Beatrice è l’incarnazione della teologia, la scienza superiore che consentirà a Dante di accedere al Paradiso e di comprenderne l’essenza. Il bianco del velo simboleggia la fede, il verde del manto la speranza, il rosso della veste la carità, ergo tutte le virtù teologali che si sommano poi alla sapienza indicata dall’ulivo, pianta sacra a Minerva. Sono evidenti i richiami al passo dell’opera giovanile “Vita Nuova” quando il Poeta incontra Beatrice per la prima volta: “Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia”nel cap.II. In un climax ascendente di luce e di colori, il Purgatorio conduce il lettore a un crescendo di emozioni e sensazioni che culmina non solo nella salita al dilettoso monte e nella purificazione, ma nell’incontro tanto agognato con Beatrice circondata da un trionfo di luci scintillanti e colori vivi. Dante trasfigura così la sua esperienza autobiografica giovanile e ritrova Beatrice, che è stata creatura reale, in un mondo extratemporale, rivestita di simboli allegorici individuabili attraverso notazioni coloristiche, e pronta a introdurlo nel mistero di Dio e nel tripudio della luce della Grazia divina.
Bibliografia
A cura di U. Bosco – G. Reggio, Dante Alighieri, Divina Commedia, Firenze, Le Monnier, 2002.
A cura di Natalino Sapegno, Dante Alighieri, Inferno, Purgatorio, Paradiso, Firenze, La Nuova Italia 1997
A cura di Alessandro Marchi, Dante Alighieri Divina Commedia, Paravia 2005
A cura di Gilda Sbrilli, Dante Alighieri Divina Commedia, Torino Loescher 2018
[1]Cfr Lapo “Amor, eo chero”, Cavalcanti “Beltà di donna”, Guinizzelli “Io vo del ver la mia donna laudare”, Folgore, “Corone”.
[2] Conv., IV, 27