L’ultima nota. Suonare nell’orrore dei lager
Di Geraldine Meyer
Si può accostare la musica, la sua bellezza, a una parola come olocausto? Si riesce a immaginare una nota, anche una sola nota musicale in un campo di sterminio? Sebbene difficile, questo è successo. Anche questo è stato. E a raccontarcelo è Roberto Franchini nel libro L’ultima nota, da poco pubblicato da Marietti. Franchini, saggista e scrittore, è esperto di storia della musica. In queste pagine racconta come questa storia sia anche quella che ha varcato i cancelli dell’orrore.
Un libro che ci conduce all’interno dei quella che possiamo chiamare raffinata crudeltà, criminale scherzo. Persone che non si facevano scrupoli a torturare e uccidere, si commuovevano ascoltando brani di musica classica. E usarono la musica per dilettarsi tra un abominio e l’altro, ma soprattutto per umiliare chi non aveva già più niente. Chi già non era più niente. E allora macabre e surreali orchestrine a scandire l’uscita dal campo di cenci umani diretti a un’altra massacrante giornata di lavoro. E poi il ritorno.
L’ultima nota è il racconto di quella che, difficile a credersi, fu la “colonna sonora” di luoghi d’abisso come Auschwitz, Dachau, Terezin, Buchenwald. Luoghi a cui l’unico suono che si riesce ad associare è quello di ordini urlati, minacce e terrore. Eppure. Eppure ci furono orchestre nei lager. Che dovevano intrattenere i criminali aguzzini e funzionare come propaganda. E levare ogni dignità ai prigionieri illudendoli con il peggiore dei veleni: quello di una effimera e momentanea speranza.
In lager come Dachau nacquero addirittura delle orchestre jazz, quella “musica degenerata” creata dai neri e suonata da ebrei a cui però nemmeno la feccia nazista sapeva resistere. Sul sottile confine tra vita e morte, tra orrore e consolazione, si crearono alcune orchestre di notevole valore, composte da musicisti di qualità. Alcuni dei quali riuscirono a comporre persino negli obitori, circondati da cadaveri pronti ad essere gettati nei forni.
Franchini ci racconta tutto questo, ci racconta del ghetto di Terezin, forse il più crudele specchietto per le allodole in cui la musica doveva illudere che le cose non fossero poi così spaventose. Ci racconta di una incredibile orchestra femminile. Dei sentimenti ambivalenti che i prigionieri provavano nei confronti dei musicisti, prigionieri anch’essi ma con qualche privilegio. Ci racconta l’orrore che diventa ancora più orrorifico proprio perché raccontato attraverso la bellezza della musica. Un atto di resistenza. Comunque. Anche se si è trattato, per molti di quei musicisti, dell’ultima nota suonata.
Attraverso brevi biografie di chi ha creato musica dentro i lager o fino a prima di varcare quei cancelli che ne hanno visto la morte immediata, noi lettori facciamo un viaggio tra complessi jazz, musicisti ebrei e rom, monaci benedettini che costruiscono strumenti i compongono canti, orchestre e composizioni all’interno dei più impensabili luoghi di morte
Saggistica
Marietti 1820
2021
322 p., brossura