Gatti al Polo
Di Roberto Cocchis
Riguardo il legame che unisce da secoli marinai e gatti, da qualche tempo è finalmente nota in Italia la storia di Simon, il valoroso gatto della fregata inglese Amethyst, insignito della medaglia Dickin, l’onorificenza creata nel Regno Unito per premiare l’eroismo degli animali domestici.
Questa vicenda, per quanto importante, non rappresenta che una minima parte di ciò che nel corso di innumerevoli navigazioni è stato condiviso tra gli uomini di mare e i loro amici felini.
In particolare, visto che l’esplorazione dei Poli terrestri è stata sempre condotta attraverso viaggi cominciati via mare, e poi continuata da esperti navigatori capaci di orientarsi senza punti di riferimento, anche questo capitolo ha visto la partecipazione di diversi gatti, in circostanze a volte tragiche ma a volte anche più fortunate. Sebbene essi non siano mai stati al primo posto tra gli interessi degli storici, spesso sono rimaste anche abbastanza testimonianze del loro ruolo e delle loro avventure.
In realtà, qualcuno in Italia ha già toccato marginalmente la vicenda di uno di questi gatti. Si tratta di Victoria, più conosciuta come Vic, la gatta tigrata che accompagnò l’eroica esploratrice inuit Ada Blackjack (nata Ada Delutuk) nella fallimentare spedizione organizzata da Vilhjalmur Stefansson nel 1921 per rivendicare al Canada l’isola di Wrangel, che in realtà si trova tra il Mare dei Ciukci e il Mare della Siberia orientale, quindi in tutta evidenza appartiene alla Russia. Com’è noto, la missione fallì miseramente perché le cinque persone fatte sbarcare sull’isola furono letteralmente abbandonate al proprio destino: tre degli uomini perirono nel tentativo di cercare aiuto attraversando il mare ghiacciato e un quarto si ammalò di scorbuto e ne morì; quando finalmente nel 1923 arrivò una spedizione di soccorso, trovò vive soltanto Ada Blackjack e la gatta Vic.
Ada portò Vic con sé a Seattle, dove si trasferì, ma non sappiamo cosa sia accaduto successivamente alla gatta.
Possiamo agganciarci alla storia di Ada Blackjack per raccontarne un’altra, a essa collegata. Uno dei tre uomini periti andando in cerca di aiuto era Fred Maurer, nato in Ohio nel 1893, un ragazzo con la vocazione all’avventura che aveva lasciato l’università per diventare esploratore, imbarcandosi come fuochista sulla nave Karluk durante un’altra disgraziatissima spedizione organizzata da Stefansson nel 1913.
Poiché Maurer era convinto che una nave privata della protezione di un gatto non sarebbe mai andata incontro a un buon destino, in una delle prime soste aveva raccolto dall’area portuale una gattina dall’aspetto macilento, prevalentemente nera ma con la pancia bianca e una striscia bianca sul naso. Le due bambine appartenenti a una famiglia di inuit unita alla spedizione le avevano dato il nome Nigigugauraq (che in inuit significa “piccola e nera”) e i marinai l’avevano trasformato nel più pronunciabile Nigeraurak.
La Karluk, nelle intenzioni, avrebbe dovuto trovare il famoso “passaggio a Nord-Ovest” capace di collegare Atlantico e Pacifico. In realtà, Stefansson se ne disinteressò appena cominciarono a sorgere i primi problemi e se ne andò prima che la situazione precipitasse. Anche l’equipaggio di questa nave e il gruppo di scienziati imbarcati su essa finirono abbandonati al proprio destino. La Karluk naufragò quando fu stritolata dai ghiacci, ma tutti riuscirono inizialmente a salvarsi raggiungendo la stessa isola di Wrangel dove Maurer sarebbe tornato qualche anno dopo.
Qui, non si sa bene cosa accadde, perché le vicende non sono state mai definitivamente chiarite (anzi, prima che uscisse il libro “Prigionieri dei ghiacci” di Jennifer Niven, che ha studiato i diari di otto superstiti, non se ne sapeva praticamente nulla): sta di fatto che, mentre il capitano della Karluk, Robert Bartlett, andava alla ricerca di soccorsi, nell’accampamento dove erano rimasti gli altri si verificarono diverse morti misteriose, non si sa se dovute ad avvelenamenti accidentali o a veri e propri omicidi. Un altro gruppo andato in cerca di aiuto si perse e non se ne seppe più nulla.
Bartlett, sia pure a malincuore, aveva dato l’ordine di sopprimere Nigeraurak quando era stato necessario abbandonare la Karluk: le condizioni climatiche erano tali che un animaletto così piccolo e con un metabolismo non adatto alla vita artica non aveva quasi nessuna speranza di sopravvivere. Tuttavia, Maurer era troppo affezionato alla sua piccola amica e se la portò dietro contravvenendo agli ordini. Con l’aiuto del cacciatore di pelli John Hadley (che a sua volta era preoccupato di salvare la sua cagnetta Molly), costruì una solida borsa di pelle di daino, che teneva sempre a tracolla o sulla schiena o comunque accanto a sé, con la gatta all’interno.
A occuparsi di Nigereaurak furono soprattutto gli inuit, la famiglia di quattro persone che era stata ingaggiata per cacciare animali selvatici e occuparsi dell’equipaggiamento: Kuraluk (padre), Kiruk (madre) e le bambine Helen e Mugpi, La più piccola era molto vivace e la gattina era la sua principale compagna di giochi. Fino alla sua scomparsa (nel 2008 all’età di 97 anni), Mugpi avrebbe portato ben visibile sul mento la cicatrice di un graffio che Nigeraurak le aveva rifilato durante un gioco particolarmente violento.
Sebbene nutrita con gli avanzi dei pasti altrui, Nigeraurak sopravvisse fino all’arrivo dei soccorsi finalmente raggiunti e guidati da Bartlett, nel settembre del 1914. Anzi, rispetto a quando era partita, la gatta era perfino ingrassata. Anche la cagnetta Molly era sopravvissuta.
Fred Maurer la portò con sé in Ohio, e per qualche anno guadagnò bene svolgendo l’attività di conferenziere, ottimamente retribuita a quel tempo. Nigeraurak si abituò benissimo alla nuova vita. Non essendo mai stata sterilizzata, durante la sua lunga vita (sopravvisse fino agli anni ’30) mise al mondo molti figli, quasi tutti identici a lei. Maurer li battezzò tutti “Karluk” e ne regalò diversi agli altri membri della spedizione, quando ebbe occasione di vederli.
È stata fatta l’ipotesi che Maurer abbia accettato l’idea di partecipare alla nuova spedizione all’isola di Wrangel per cercare di scoprire cosa potesse essere accaduto ai suoi compagni morti misteriosamente.
Nigeraurak, dunque, sopravvisse al suo salvatore e padrone, vivendo gli ultimi anni insieme ai suoi familiari. Non sappiamo invece cosa accadde alla cagnetta Molly dopo che John Hadley (che se l’era portata dietro quando si era trasferito a San Francisco) morì nell’epidemia di spagnola del 1918.
Altri gatti che hanno lasciato una piccola traccia nell’esplorazione del Polo Nord sono stati sicuramente i due che furono imbarcati sulla nave austroungarica Admiral Tegetthoff nel 1872, sotto la guida di Carl Weyprecht e di Julius von Payer (l’eqipaggio, va osservato, era composto in gran parte da marinai italiani). Non se ne conoscono i nomi, ma si sa che purtroppo morirono entrambi per cause naturali durante la prima parte della spedizione, facendo insorgere cupi pensieri nella mente dei marinai. Che fosse dovuto alla perdita dei mici o no, resta il fatto che anche questa spedizione fu parecchio sfortunata, pur portando alla scoperta di un arcipelago disabitato, che fu battezzato Terra di Francesco Giuseppe, e all’esplorazione di una parte della Novaja Zemlja, un altro importante arcipelago artico. In realtà, già nella Terra di Francesco Giuseppe, la nave era andata distrutta per la pressione dei ghiacci. La Novaja Zemljia era stata raggiunta con mezzi di fortuna avanzando a tappe forzate sul mare ghiacciato.
Durante l’avventuroso ritorno, la spedizione austriaca non perse neppure un uomo. Ma diversi membri contrassero la tubercolosi in seguito alla durezza dello sforzo compiuto per sopravvivere e alle privazioni subite. Prima di riuscire a tornare in Austria, la malattia uccise l’esploratore Otto Krish. Il comandante Weiprecht ne morì anch’esso, sette anni dopo essere tornato a casa, appena quarantatreenne.
Anche l’esplorazione del polo Sud ha visto almeno un gatto protagonista. In un certo senso, è il più noto di tutti i gatti andati ai poli, perché la storica che ha ricostruito la vicenda della sua spedizione, Caroline Alexander, ha poi scritto un romanzo di grande successo sulla spedizione stessa, in cui è il gatto a narrare personalmente i fatti.
Quella di Mrs Chippy è una vicenda tragica ma al tempo stesso importante di quanto possa essere forte il legame tra un uomo e il suo pet.
Mrs Chippy era il gatto di un carpentiere scozzese, Henry McNish (altre volte trascritto McNeish), nato nel 1874, un omaccione grosso e rude dal quale era lecito aspettarsi tutto, tranne la tenerezza verso qualcuno. Come tutti i carpentieri della Marina mercantile inglese, era chiamato “Chippy” (da “Chips”, truciolo). Non sappiamo da quanto tempo McNish avesse il gatto con sé quando si imbarcò sulla Endurance di Ernest Shackleton, nel 1914, ma sappiamo che i due erano legatissimi tra loro, tanto è vero che i marinai battezzarono il gatto “Mrs Chippy” (la signora Chippy) nonostante fosse un maschio.
Mrs Chippy aveva il gusto dell’avventura e dell’acrobazia. Come riferì il capitano Frank Worsley, quando i marinai si arrampicavano sul sartiame li seguiva come se fosse stato un marinaio anche lui. Si divertiva a correre su e giù lungo uno stretto passaggio che correva sopra gli alloggiamenti dei cani da slitta, che sentendo il suo odore abbaiavano a più non posso.
Una volta volle per forza saltare fuori da un oblò per vedere cosa c’era dietro, e ovviamente cadde in mare. L’ufficiale di guardia lo vide e diede l’allarme. Mrs Chippy riuscì a mantenersi a galla per il abbastanza tempo e lo zoologo della spedizione, Robert Clark, lo recuperò con una delle reti che usava per pescare.
Era però destino che Mrs Chippy si giocasse tutte le sue sette vite in quella spedizione.
Quando il 30 ottobre 1915 la Endurance fu stritolata dai ghiacci che le si richiudevano intorno nel Mare di Weddell, l’equipaggio e la squadra scientifica dovettero abbandonare tutto ciò che non era necessario. Shakleton diede ordine di abbattere i cuccioli di husky, un cane da compagnia e Mrs Chippy, perché riteneva che non sarebbero mai sopravvissuti in quelle condizioni.
In quel momento, McNish non era con il suo gatto, ma stava cercando disperatamente di rallentare l’affondamento della nave e di recuperare quante più provviste possibile dal suo interno. Tutti i compagni avrebbero poi testimoniato quanto fosse stato prezioso il suo contributo.
A eseguire l’ordine di Shackleton fu proprio Thomas Crean, il marinaio che si occupava degli husky e aveva cresciuto fin dalla loro nascita i tre cuccioli da abbattere. Mrs Chippy fu ucciso da una fucilata mentre dormiva, dopo un ultimo pasto a base di sardine. Un altro membro dell’equipaggio, il medico Alexander Macklin, dovette uccidere il suo cane Sirius mentre questo gli faceva le feste.
Il resto della missione Endurance è la storia di un salvataggio quasi incredibile, in condizioni limite, quasi come su un pianeta alieno. Gli uomini dovettero viaggiare per centinaia di chilometri sul ghiaccio accidentato (con spuntoni alti anche tre metri) o che si frantumava all’improvviso, con pochi viveri e scarso carburante per scongelarli, continuamente bagnati ed esposti a temperature inferiori a – 20°C. McNish, con la sua perizia di carpentiere, era riuscito a mettere insieme tre scialuppe che potevano anche essere trascinate sul ghiaccio come slitte, purché non fosse stato accidentato. Queste scialuppe si rivelarono fondamentali quando fu raggiunta la costa.
Inizialmente, Shackleton pensò di dirigersi all’isola Desolation, ricca di pinguini e foche da cacciare, ma anche di baracche usate dai pescatori, dalle quali si sarebbe potuto ricavare il legno per rinforzare le barche. Ma Desolation distava 300 km di mare tempestoso, per cui sembrò più prudente dirigersi sull’isola Elephant, già visibile all’orizzonte dalla costa. Nonostante la relativa vicinanza, ci volle una settimana di navigazione per raggiungerla, nell’aprile del 1916.
Una volta arrivati, Shackleton decise di proseguire con la sola scialuppa in migliori condizioni (quella chiamata James Caird) rinforzata con pezzi delle altre due e di usare tutto il fasciame rimasto per costruire dei rifugi. Solo gli uomini in migliori condizioni lo avrebbero seguito, mentre gli altri avrebbero aspettato sull’isola di essere salvati.
Dal diario che tenne in quel periodo, sembra evidente che McNish fosse di umore cupo. Era furioso con Shackleton che gli aveva fatto uccidere il gatto (a suo dire, gli sarebbe bastato privarsi di due bocconi di cibo al giorno per mantenerlo in vita, e lo avrebbe fatto volentieri) e gli si era già ribellato una volta, al punto che Shackleton lo aveva minacciato con una pistola (non era stato comunque l’unico a ribellarsi). Non sopportava neanche l’idea che i suoi compagni uccidessero i cani da slitta quando non c’erano foche e pinguini da cacciare e mangiò carne di cane con molta riluttanza, solo perché non aveva alternative, sentendosi il colpa per questo. Non sopportava la volgarità dei suoi compagni, litigava con tutti e, una volta arrivati a Elephant, Shackleton decise di portarselo dietro, nonostante i loro pessimi rapporti, perché riteneva che la sua presenza avesse un effetto deprimente sugli altri. McNish, dal canto suo, era convinto che gli uomini rimasti a Elephant fossero condannati a morire di stenti, quindi seguì Shackleton pur detestandolo.
In ogni caso, McNish svolse il suo lavoro in modo eccellente. La James Caird tenne benissimo il mare in condizioni difficili, e le baracche da lui costruite per i compagni ressero senza cedere per tutto il tempo necessario.
Gli insediamenti umani stabili più vicini si trovavano nella Georgia Australe, una grossa isola sempre occupata da equipaggi di navi da pesca. Si trattava di percorrere circa 1600 km ma in condizioni di venti e correnti abbastanza favorevoli. Nonostante le scarse riserve di cibo e il freddo, la traversata fu compiuta in 15 giorni. Sorpresi da una tempesta quando erano in vista della terra, sbarcarono nel primo punto utile, la Baia di Re Haakon, che però si trovava dalla parte opposta dell’isola rispetto al porto, sito a Husvik. Shackleton lasciò McNish e gli uomini più malridotti nella scialuppa capovolta sulla riva e, appena il tempo lo permise, si mise in marcia per attraversare l’isola a piedi insieme ai due compagni in condizioni migliori.
Dopo un giorno e mezzo di marcia, finalmente Shackleton raggiunse il porto di Husvik, dove c’erano diverse navi di pescatori, che credevano lui e il suo equipaggio morti da tempo. McNish e i due compagni rimasti alla Baia di Re Haakon furono salvati il giorno dopo, 21 maggio 1916.
Ci vollero però quattro tentativi per recuperare i 22 uomini rimasti all’isola Elephant. Tra le tempeste e gli iceberg vaganti, i primi tre viaggi si conclusero con un nulla di fatto. Solo il 30 agosto 1916, Shackleton riuscì a recuperare i suoi uomini, grazie al capitano cileno Luis Pardo, che pur avendo a disposizione solo una vecchia nave militare, la Yelcho, la condusse con grande perizia e rapidità in mezzo a un mare molto pericoloso.
Tornati in patria, Shackleton e i suoi uomini furono accolti da eroi. Tuttavia, la spedizione Endurance era costata molto e non aveva portato a nessun risultato, quindi Shackleton si ritrovò perseguitato dai creditori. Per guadagnare fu costretto a un’intensa attività di conferenziere che nonostante la Grande Guerra in corso lo portò in quasi tutto il mondo. Altri guadagni li ottenne grazie al film In the Grip of the Polar Pack, ottenuto dalle immagini scattate dal fotografo della spedizione, l’australiano Frank Hurley, che nel 1919 fu uno dei maggiori successi della stagione cinematografica.
Solo nel settembre del 1921 riuscì a organizzare una nuova spedizione antartica. Il 4 gennaio 1922 tornò nella Georgia Australe a bordo della Quest, ma il giorno dopo ebbe un attacco cardiaco e morì a non ancora 48 anni, inutilmente assistito da Alexander Macklin.
Il Regno Unito conferisce dal 1847 una decorazione al valore agli esplotarori polari, la Polar Medal. Quasi tutti gli uomini della spedizione Endurance ne furono insigniti (due la ottennero alla memoria, essendo intanto caduti nella Grande Guerra. Shackleton ne aveva già ricevuta una per l’impesa della Nimrod del 1909), tranne quattro. Uno di questi quattro è proprio Henry McNish, nonostante fosse stato uno dei maggiori protagonisti dell’impresa.
Il dottor Macklin dichiarò che la decisione di Shackleton (cui spettavano le proposte) di escludere il carpentiere era un’azione squallida, ma spiegò anche che secondo lui Shackleton era stato influenzato da altri membri che non sopportavano McNish.
Per McNish non cambiò molto. Era troppo vecchio per andare in guerra e le conseguenze delle privazioni e degli sforzi al polo Sud lo avevano reso un mezzo invalido. Per qualche anno cercò di imbarcarsi ancora, ma con scarsi risultati. La terza moglie (delle prime due era rimasto vedovo in gioventù) lo lasciò con un figlio adolescente. Si trovò una nuova compagna, che poi diventò la sua quarta moglie e dalla quale ebbe poi un’altra figlia, anche se non è certo che la bambina fosse sua. Trovò soprattutto un lavoro di addetto alla manutenzione delle navi, senza più necessità di navigare, presso una compagnia marittima (“New Zealand Shipping Company”) di Wellington, in Nuova Zelanda, dove si trasferì.
Nel 1925, in seguito a un infortunio in servizio, divenne inabile al lavoro. Lasciò la famiglia e se ne andò a vivere nel porto di Wellington, tra le bettole che gli offrivano da mangiare e da bere gratis purché raccontasse le sue avventure polari agli avventori e i depositi in cui i guardiani lo lasciavano rimanere tutto il tempo che voleva, soprattutto la notte. Le associazioni di mutuo soccorso dei portuali e dei marittimi raccoglievano ogni mese una piccola somma per aiutarlo, ma lui la consegnava alla famiglia e non teneva niente per sé.
Era ancora furioso con Shackleton, non per la medaglia negata, di cui non gli importava nulla, ma per la faccenda del gatto. Il suo argomento di conversazione preferito era sempre Mrs Chippy, di cui parlava come se fosse ancora vivo.
Alla fine, le sue condizioni si aggravarono al punto che fu necessario trovargli un posto in un ospizio per ex marittimi. Dopo qualche tempo, però, dovette essere trasportato all’ospedale di Wellington, dove morì nel settembre del 1930, poco dopo aver compiuto 56 anni.
I neozelandesi, che lo avevano adottato, gli fecero un funerale solenne, con tanto di picchetto d’onore.
La Società Antartica Neozelandese sta portando avanti, finora senza grandi risultati, la causa per il riconoscimento postumo della Polar Medal.
Intanto, però, una prima soddisfazione, il vecchio Chippy se l’è presa.
Nel 2004, visto che la sua tomba andava restaurata, la Società Antartica Neozelandese ha deciso di erigergli un monumento. Ma, per onorarne davvero la memoria, si è deciso che questo monumento, posto sulla sua tomba, avrebbe ritratto Mrs Chippy a grandezza naturale, in bronzo, così come risulta dalle foto scattate da Frank Hurley.
Il nipote di McNish, Tom, presente all’inaugurazione, ha commentato che la statua del gatto sarebbe stata per il nonno un riconoscimento preferibile a quello di qualunque medaglia.
Anche il territorio della Georgia del Sud e delle isole Sandwich meridionali ha onorato la memoria di Mrs Chippy, dedicandogli un francobollo in cui appare sulla spalla del marinaio Pierce Blackborow in una foto iconica di Hurley.
A Henry McNish è invece intitolata una piccola isola di fronte alla Baia di Re Haakon, nella Georgia Australe.
L’immagine di copertina è presa da vanillamagazine.it e ritrae il gatto Simon che salvò i marinai della Fregata Amethyst