Il filologo di Dio
Di Vladimir D’Amora
Federico, perché il nome è lo stesso o solo affibbiato amuleto, l’aveva sempre saputo di essere nato. Come una di quelle evidenze da spartire, forse la sola, si era sempre messo a rincorrere il suo fiuto, devastandosi e sicuro. Una notte, era ancora un bimbo equivoco, mentre le zie lesbiche e lettrici vegliavano, e suo padre posava alla sua fissa d’uomo timorato, quella notte Federico sognò l’insolito, almeno per dove, e come, si montano i bimbi. Bensì lui, ch’era un bimbo, sognò un passaggio, quasi il trascorrere da un punto all’altro, anzi, entro due inesistenti termini essenziali del trascorrere medesimo. Era il tempo, che passava, quello maiuscolo colle sue maiuscole lacune, le perdite paragonabili alle noie di un singolo, senza riscatto alcuno. Federico si sognò tempo che tracima, continuità insoddisfatta, sempre continuità ma qui e là bucata, come gocciolante. Dormì a lungo Federico, e anche allora si destò con la solita fame di far la parte, anche perché voleva ancora quell’esteriorità che voleva fossero i sogni.
Studiò poi le matematiche, senza profitto, cantò le massime di esseri compresi tra gli estremi del vivente, dio e bestia, gli dei tanti che scrupolosamente si ripetevano, senza che nessuna porzione di terra, come di cielo, contasse defezioni. Dopo ch’ebbe sognato un enorme orecchio d’isola, di cui aveva letto ore prima, nella stessa giornata, Federico si decise per accenti e ritmi, con ideazioni precoci ed inevitabili. Ma fu un incontro lungo una scala di legno, con una mosca silenziosissima, lenta e inafferrabile, a spingerlo a quello che, con margine friabile appena, anche io potrei dire compito suo. Bisognava gettare a parte i materiali, i dati ai loro esperti, le liste nelle mani dei custodi delle torri, muti o doppi guardiani. E costruire, lanciarsi in una prassi, cogli scopi ripercuotentisi, azzardarsi, cioè, nelle analogie.
Ora, io non seguirò Federico per le ambagi dei suoi fogli, le sue scritture duplici e triplici con sorpresa o ricche d’impudenze come d’imbarazzi — a seconda dell’umore, di destinazione e destinatario, di grana e stilo, e delle libresche dispense disponibili di volta in volta, donde estraeva, e che scordava. Lungo i suoi passi a rimedio, pieni d’aria. No, io menzionerò un caso solo, toccatogli a metà della vita. Quando, fidandosi e ruminando come una bestia giammai conscia d’essere esausta, si ritrovò seduto in un altro sogno. Era Federico bimbo, di nuovo, nello stesso giardino punteggiato di litici sedili e albi, lisci: e c’era la stessa luce di latte rancido. Questa volta, però, Federico sognò la verticale, il sogno ch’era sogno gli parve, un inno immobile, come se il suo occhio non fissasse che l’altro dentro fino a sé. E allora Federico, che di certo, da sveglio, aveva letto di tanti dei unici tutti, su navi lignee e aggressive, persi nelle arene di sangue e parole, foggiati lisci come il gregge o scimmie astute e fluenti, e poi dentro a nicchie a picco di mare, Federico pregò per la prima volta, col suo accento e le sue more. Quando si fu alleggerito, ancora sognava, già intero che aderiva a sé, si sognò vocarlo, e sussurrare maiuscolo: Dio, fatti Dio.
Poi, destato dai tumulti della terra, passandosi la mano sulla folta testa, a pelo, ricordò, e non l’aveva mai dimenticato, le sue due lingue non hanno vocativo — per dio.
Postilla
Dio e uomo, al colmo della loro riconoscibilità, ch’è un modo del dolore, si affratellarono tanto, da potersi reciprocamente scordare: l’uno alieno per essere dell’altro schema interno (tempo), questo tra o, meglio, con gli uomini smarrito.
L’amore per le cose prossime, l’insistenza nella superficie, insieme con un dio morto nei suoi feticci soltanto: si tratta di un rapporto degno di quella parodicità, ancora un rapporto, che renda indiscernibili i termini.
Se theòs, deus so’ insieme la parola e la sua cosa, allora ad un oggetto sì fatto, e sì dato, è (stata) adeguata solo un’operazione, che facesse avvertire in ogni suo trascorrere il suo stesso compimento: operazione che, delle fratture, fosse non più, che tensione a suturarle. Solo a questo operare, ossia alla filologia, è riuscito di sillabare: nichilismo — in una specie di contratto, e talvolta contrazione, di scrittura.