L’umiltà nella Divina Commedia: dote necessaria e imprescindibile.
Di Graziella Enna
Fin dal principio del suo viaggio Dante ha ben chiaro che per portare al termine il suo percorso di salvezza dovrà assumere un atteggiamento di umiltà non sempre facile da conservare. In questa difficile impresa ha un ruolo cardine Virgilio, allegoria della ragione, sempre accorto nel condurre il Poeta sulla via edificante dell’umiltà e della contrizione, ma del resto Dante ha appreso dallo studio dei grandi teologi cristiani che l’essenza vera dell’uomo consiste nel riconoscere la sua fragilità e la sua umanità. Come Gesù si è incarnato per salvare l’umanità accettando in modo totalizzante di obbedire alla volontà di Dio, così Dante, pur sentendosi indegno di una tale impresa, sente la responsabilità dell’investitura che gli proviene direttamente dal creatore in cui dovrà mostrare all’umanità la via della salvezza. Comprende dunque di dover rinunciare a se stesso per un bene superiore, una conquista non individuale ma collettiva. In un certo senso rappresenta il doppio di Enea che sacrifica i suoi bisogni e le sue aspirazioni pur di assolvere a una missione divina che superi e trascenda la dimensione personale, non si può certo dimenticare che la lezione virgiliana costituisce una prefigurazione del poema dantesco[1]. Anche per quanto concerne il problema del genere letterario e dello stile dell’opera, il concetto di umiltà ha un suo peso. In un passo della lettera a Cangrande della Scala, Dante spiega il titolo dell’opera e parla di commedia per due motivi: il lieto fine e lo stile basso e umile. Come spiega Auerbach[2] , Dante è consapevole di aver composto un poema sacro e di aver superato lo stile umile, ma sa anche di avervi inserito tanta vita concreta, tanto realismo, sia nelle parole che nei fatti e in tutte e tre le cantiche. In questo si uniforma alle Sacre Scritture che contemplano un utilizzo contestuale dello stile umile e sublime. Il regno per eccellenza dove si esplica in tutte le possibili sfumature l’anelito verso l’umiltà è il Purgatorio, ma sarebbe riduttivo e ingiusto ritenere che negli altri due regni tale prerogativa non sia condizione essenziale per procedere nel cammino verso Dio. Si può citare come primo esempio la paura di peccare di folle superbia e di superare l’umiltà della natura umana, nel passo del II canto, (vv. 32-36), in cui Dante utilizza un exemplum sacro e uno profano, tipici del suo sincretismo, che evidenziano la sproporzione tra i due personaggi citati e se stesso. Dante, dopo Enea e San Paolo è il primo essere vivente a poter compiere un viaggio ultraterreno:
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono”.
Lungi dal commettere il peccato di superbia, Dante, umile peccatore, con l’aiuto della ragione e della teologia può raggiungere la sua salvezza e quella dell’umanità intera. Esempi concreti e tangibili di umiltà, come detto sopra, si trovano però nel Purgatorio, in cui il pellegrino deve liberarsi e dalla caligine infernale e dalla dura scorza del peccato. Il primo canto del secondo regno presenta alcuni passi in cui Dante deve palesare tutta l’umiltà del pellegrino che compie l’ascesa verso la salvezza. L’exemplum mitologico di superbia punita presente nell’incipit (le Pieridi che osarono sfidare le Muse trasformate in gazze), costituisce la cifra dell’intera cantica, ovvero la necessità obbligatoria di deporre ogni forma di presunzione incompatibile con la montagna purgatoriale. Il primo personaggio che Dante incontra è Catone, custode del Purgatorio nei confronti del quale, spronato da Virgilio, deve assumere un atteggiamento di rispetto, di riverenza e di preghiera inchinandosi al suo cospetto e abbassando il capo e lo sguardo. Questa deferenza, unita al linguaggio del corpo, è consona alla sottomissione e al pentimento che Dante deve dimostrare per avviare il suo processo di espiazione dei peccati.
I, 49-52
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.
Quando poi Catone apprende che il viaggio di Dante è voluto dal cielo e da una donna del Paradiso, accetta il passaggio dei due pellegrini e invita Virgilio a sottoporre il poeta ad un rito di purificazione: dovrà lavargli il viso con la rugiada e poi cingergli i fianchi con un giunco liscio e dritto.
94-97
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
Tutti i commentatori sono concordi nell’affermare che il giunco sia da considerare il simbolo dell’umiltà per eccellenza, infatti, come si dice più avanti, quando Virgilio svelle il giunco, (unica pianta flessibile che può sopportare l’assalto delle onde piegandosi umilmente), immediatamente rinasce nel molle limo dal punto esatto da cui viene strappato. E’ evidente il significato simbolico collegato a questo episodio: l’umiltà è una dote che deve essere continua e inesauribile, come il giunco che rinasce immediatamente, perciò l’anima che anela a conquistare la libertà morale dal peccato deve compiere un grande sforzo nell’umiliarsi senza cedimenti e debolezze. Altro elemento da sottolineare è il richiamo a Virgilio: anche Enea prima di entrare nei Campi Elisi si lava il volto per mondarlo dalla lordura del Tartaro e quando stacca il ramoscello d’oro ne rinasce subitaneamente uno identico[3]. Il legame tra il giunco e la fronda aurea indica che la virtù è inconsumabile.
I, vv-134-136
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l’avelse.
Nel secondo canto Dante ha un altro incontro memorabile. Mentre i due pellegrini si trovano nella spiaggia del Purgatorio vede l’angelo nocchiero che conduce una lieve imbarcazione con la sola forza delle sue ali. Nel suo percorso incontrerà simili ministri divini, e al loro cospetto dovrà sempre usare un riguardo e una riverenza esemplari, Virgilio lo esorta a inginocchiarsi, pregare di fronte a lui e abbassare lo sguardo. L’ultimo gesto ha anche un significato allegorico: dal momento che lo splendore luminoso dell’angelo riflette quello di Dio, Dante che ancora è all’inizio del suo pentimento e della sua purificazione non può sostenerne la vista.
II 28-30
“Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco l’angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di sì fatti officiali.
Prima di incontrare un altro alato ministro divino, Dante e Virgilio devono attraversare l’antipurgatorio e giungere alla porta del Purgatorio vero e proprio. Anche qui deve affrontare una penitenza che consiste nel salire i tre gradini che rappresentano i tre momenti della confessione: contritio cordis, confessio oris, satisfactio operis. Qui li attende l’angelo portiere a cui Dante umilmente deve chiedere di aprire la porta dopo aver chiesto misericordia e perdono. L’angelo gli incide, con la spada di cui è munito, sette P nella fronte che rappresentano i sette peccati capitali dei sette cerchi che Dante dovrà percorrere pentendosi e sottoponendosi alle pene stabilite. L’angelo stesso ha una veste, grigiastra, color cenere, che rappresenta l’umiltà con cui il confessore deve esercitare il suo ufficio quando confessa le anime.
IX, vv.112-116
Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e “Fa che lavi,
quando se’ dentro, queste piaghe” disse.114
Cenere, o terra che secca si cavi,
d’un color fora col suo vestimento;
Varcata la soglia, i poeti giungono alla prima cornice ove si espiano il loro peccato i superbi, che oltre a pregare, devono meditare su esempi di umiltà premiata, rappresentati in altorilievi di marmo nella parete della cornice, e esempi di superbia punita effigiati a terra in modo da essere calpestati. Gli esempi di umiltà sono raffigurati in maniera realistica e sembrano erompere dalla roccia, evocare sensazioni uditive e addirittura olfattive, oltre che colpire con la loro bellezza di opere non umane ma divine. Il primo esempio rappresenta l’arcangelo Gabriele che scese in cielo ad annunciare a Maria la nascita del Redentore. Sembra quasi di udire il saluto dell’angelo poiché accanto a lui è scolpita Maria che apre la porta all’amore di Dio per gli uomini. Nei suoi atti si palesano le parole con cui si dichiara “ancilla dei” in modo così chiaro come un sigillo si imprime nella cera. Sono i vocaboli del racconto evangelico ma qui si caricano della valenza ancora più pregnante dell’exemplum.
X, vv- 40-45
Giurato si saria ch’el dicesse ’Ave!’;
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;42
e avea in atto impressa esta favella
’Ecce ancilla Deï’, propriamente
come figura in cera si suggella.
La seconda scena scolpita riguarda raffigura il carro che trasportò l’Arca Santa a Gerusalemme, preceduto dagli Ebrei ordinati in sette cori. Anche in questo caso la scultura è molto realistica e a Dante sembra di udire i canti sentire il profumo dell’incenso. L’Arca è preceduta dal re David, che danza con la veste umilmente alzata, in modo sconveniente per un re, mentre dalla finestra di un palazzo la moglie Micòl, lo osserva in atteggiamento di sprezzante superbia per l’umiltà dimostrata dal marito.
X, vv.61-69
Similemente al fummo de li ’ncensi
che v’era imaginato, li occhi e ’l naso
e al sì e al no discordi fensi.63
Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l’umile salmista,
e più e men che re era in quel caso.66
Di contra, effigïata ad una vista
d’un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista.69
Il terzo esempio rappresenta l’imperatore Traiano e una vedova che gli si avvicina piangente per chiedergli giustizia per il figlio ucciso. Intorno a lui è pieno di cavalieri che levano al cielo le insegne imperiali a forma di aquila d’oro, che sembrano muoversi al vento. L’imperatore risponde di attendere il suo ritorno, ma la vedova teme che Traiano non torni. Lui ribadisce che il suo successore le darà soddisfazione. Ma l’afflitta donna gli ricorda che se un altro farà del bene al suo posto a lui non gioverà, così, spinto dalla pietà, accetta di fare giustizia prima di partire, anteponendo umanità e umiltà al suo ruolo di comandante. Quest’episodio era ben noto nel Medioevo tanto che si diceva che papa Gregorio avesse pregato per la salvezza dell’anima di Traiano.
X,vv. 82-93
La miserella intra tutti costoro
pareva dir: “Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”;84
ed elli a lei rispondere: “Or aspetta
tanto ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio”,
come persona in cui dolor s’affretta,87
“se tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’io,
la ti farà”; ed ella: “L’altrui bene
a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?”;90
ond’elli: “Or ti conforta; ch’ei convene
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene”.
Nel canto successivo, dedicato ai superbi, Dante dopo aver incontrato il miniatore Oderisi Da Gubbio, resta molto colpito dalla sua umiltà (nell’ammettere di essere stato superato nella sua arte), e dichiara che grazie a lui si ha sentito abbassarsi la sua grande superbia di letterato e dotto.
XI, vv. 118-119
Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani
Allo stesso modo, sempre nel canto XI è ammirato di fronte al racconto che riguarda l’umiliazione di Provenzano Salvani, il capo ghibellino senese che per salvare il suo migliore amico dalla prigione si umiliò a chiedere l’elemosina in piazza del Campo a Siena per pagare il riscatto della liberazione. Nel canto successivo Dante ha osservato gli esempi di superbia punita effigiati nella parete rocciosa e dopo un’attenta meditazione il suo animo è invaso e rinnovato da un’ondata di umiltà che lo fa sentire leggero, libero dalle ambizioni terrestri e consapevole della sua piccolezza. In questa disposizione d’animo fa un altro eccezionale incontro con l’angelo dell’umiltà che accoglie lui e Virgilio e li invita a salire nella seconda cornice dicendo loro che solo poche persone hanno il privilegio di ascendere al cielo, nonostante siano nate per volare su, sono trascinate in basso dal vento della tentazione.
XII 91-96
Le braccia aperse, e indi aperse l’ale;
disse: “Venite: qui son presso i gradi,
e agevolemente omai si sale.
A questo invito vegnon molto radi:
o gente umana, per volar sù nata,
perché a poco vento così cadi?”.
A questi versi si può collegare l’umiliazione più grande che Dante possa provare che agli occhi del lettore lo rende fragile, indifeso e degno di umana ed empatica partecipazione: si tratta degli aspri rimproveri che riceverà da Beatrice nel Paradiso terrestre dopo la sparizione di Virgilio in due canti cruciali dell’intero poema, il XXX e il XXXI. La lunga e dura requisitoria di Beatrice lo indurrà all’estremo pentimento e alla completa confessione dopo che ha già espiato i peccati capitali nelle sette cornici. Dante infatti, attratto dalla fallacia dei beni terreni, per la sua mancanza di umiltà prevaricata dalla superbia intellettuale, aveva imboccato la via della perdizione morale. Dopo quest’estrema umiliazione, dovrà sottoporsi agli ultimi riti di purificazione, descritti negli ultimi canti, cioè l’immersione nei fiumi Letè e Eunoè che lo renderanno “puro e disposto a salir le stelle”. Giunto nel Paradiso troverà importanti esempi di umiltà che hanno un significato edificante, proprio perché ogni vanità terrena, ogni legame col mondo e ogni forma di immodestia svaniscono nel regno celeste. Tra gli innumerevoli esempi, si può citare la vicenda di Romeo di Villanova che si trova a suggello del canto politico, il VI. In modo lapidario e commovente Dante ci narra la vicenda umana di Romeo, un uomo di umili origini che diviene per puro caso ministro di Raimondo Berengario, conte di Provenza, ne accresce e ne tutela il patrimonio oltre a procurare matrimoni regali alle quattro figlie. La maldicenza e le calunnie degli invidiosi provenzali inducono il conte a cacciarlo via. Romeo si umilia a tal punto da accettare senza repliche la sua sorte: lui uomo giusto se ne parte povero e vecchio. Se la gente sapesse con quale forza d’animo esemplare si ridusse a elemosinare il pane tozzo a tozzo lo loderebbe ancora di più di quanto già faccia.
Par, VI vv. 133-141
Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
Romeo, persona umìle e peregrina.135
E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece,138
indi partissi povero e vetusto;
e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,141
assai lo loda, e più lo loderebbe.
Chi opera in modo onesto dunque, non solo è condannato all’ingratitudine ma anche all’umiliazione. Questa, dunque, non è solo la vicenda di Romeo ma diventa quella di Dante stesso, exul immeritus, ingiustamente condannato all’esilio, che si rispecchia pienamente in quelle parole “umile e peregrino”, che dopo l’esilio diverranno la cifra della sua vita. Elemento che aggiunge un significato ancora più importante all’episodio, è che Romeo rinuncia totalmente alla gloria terrena, non gli serve più, animato dalla consapevolezza di aver compiuto onestamente il proprio dovere. Anche se in termini riduttivi, vista la straordinarietà della vicenda, non si può dimenticare la rinuncia totale ai beni terreni e la povertà assoluta che caratterizzano l’uomo umile per eccellenza, San Francesco, la cui mirabile vita è descritta nel canto XI in indimenticabili versi come il matrimonio mistico con la Povertà personificata o la sepoltura nella nuda terra. Dante, tuttavia, nonostante la difficoltà per il lettore di operare una scelta in cotanta magnificenza, raggiunge l’apice assoluto nell’ultimo canto, nella celebre preghiera di San Bernardo in cui la Vergine Maria viene definita con due termini in apparenza oppositivi “umile e alta” a dimostrazione che il suo atteggiamento di estrema accettazione della volontà divina e di totale e umile sottomissione l’ha resa la più nobile e alta creatura e madre esemplare di Cristo. Può sembrare dunque un ossimoro ma il farsi umile conduce alla più alta virtù destinata all’ineffabilità del Paradiso. Forse è proprio questo uno dei moltissimi insegnamenti che Dante a distanza di secoli vuole dare ai posteri: la necessità di restare umani, semplici, umili ma soprattutto di coltivare principi e valori che si addicano a tali doti che non sviliscono l’uomo ma lo rendono grande.
[1] Auerbach Eric, “Studi su Dante”, Milano Feltrinelli 2005,
[2] ibidem
[3] Aen. VI 635-636 e 143-144.