Viaggio in Italia di Canova
Di Arianna Bonino
Se non avessi già un paio di impegni che mi tratterranno sul territorio nazionale, non c’è dubbio che tra l’8 e il 13 Aprile farei di tutto per essere a New York, una città già strabiliante ora, ma che in quella settimana vanterà nel suo carnet di delizie una perla determinante per decidere di farne meta di un viaggio indimenticabile. Quella perla ha un nome famosissimo, magnetico, seducente: Maddalena. Meglio ancora: “Maddalena giacente”. E infatti giace, marmorea, estatica, sublime. È nata duecento anni fa, ma non ha età. Bellissima estasi la sua, un’estasi che contagia chi la guardi, come l’incantesimo di un basilisco benedetto che impietrisce su di sé lo sguardo altrui, vivificandosi senza deprivare chi si rivolga al miraggio suo vero: ci si arrende con gioia davanti al niveo riposo della pietra levigata tanto da esser più vera del vero e quindi sovrumana. Le sue forme finite furono carezzate a lungo da chi gliele diede. Lui, che quando terminava un lavoro era uso toccarlo a lungo ancora per recarlo con sé. Quella Maddalena è figlia di Antonio Canova, che la scolpì intorno al 1820 per Robert Banks Jenkinson, all’epoca primo ministro inglese.
Nata da padre certissimo quindi, ma questa giacente Maddalena divenne orfana passando di mano in mano, fino a perdere chissà dove la paternità e finire venduta ad un’asta di arredi da giardino, anonima e bellissima. Era il 2002 e se l’aggiudicarono due coniugi inglesi per 5200 sterline, una cifra chiaramente del tutto insignificante per un capolavoro del genere, di cui – come tutti – ignoravano l’identità. La recente riattribuzione di paternità alla Maddalena ha del miracoloso e sarà curioso capire chi riuscirà ad aggiudicarsela a luglio, dopo le esposizioni che la vedranno prima a New York, poi a Tokyo e infine a Londra dove verrà battuta all’asta da Christie’s, con una stima di partenza di 5-8 milioni di sterline (6-9,5 milioni di euro).
È un anno importante questo per Canova, che esattamente duecento anni fa consegnava definitivamente alla nostra memoria la sua opera. E proprio in questi giorni viene pubblicata un’opera che permette di avvicinarsi a Canova come forse mai si potrebbe pensare di farlo se non con un amico con cui si decide di fare un viaggio. Il viaggio della vita, quello a Roma. E’ uscito in questi giorni per i tipi di “Prospero Editore” nella collana di prose alternative “Ariel” il bellissimo “Viaggio in Italia” a cura di Dario Borso. Una grande cura, bisogna dirlo, in grado di consegnarci il suo pregevole ammodernamento di queste memorie scritte nottetempo da Canova durante il viaggio che lo vide giungere a Roma nei nove mesi di percorso attraverso una mappa costellata di incontri, scoperte, studi, capolavori (alcuni oramai perduti).
Questo diario canoviano, proprio perché tale e quindi quaderno di appunti e note, può oggi dirsi comprensibile e accessibile grazie al lavoro minuzioso di Borso che ha saputo trovare il punto d’equilibrio ideale tra il testo originale, scritto – come dobbiamo ricordare – da un autodidatta dell’entroterra veneto che si metteva in viaggio due secoli e mezzo fa – e quindi testo quantomeno ostico a chi lo affrontasse sic et simpliciter oggi (“I quaderni”, donati nel 1821 al museo civico di Bassano del Grappa dal fratellastro di Canova, Giovan Battista Sartori) – e i testi che per via di correzioni e “purghe” varie finiscono per essere vera e propria “parafrasi” dell’originale.
“Viaggio in Italia” ha pertanto il pregio di conservare la genuinità del diario canoviano e nello stesso tempo, di permettere una lettura godibilissima, avendo Borso lavorato di cesello su abbreviazioni, ortografia, lapsus e interpunzioni, e avendo tradotto le espressioni dialettali diversamente incomprensibili, pur conservando con tali interventi la franchezza dell’originale “restituito” a Canova proprio grazie al prezioso lavoro di limatura operato.
Quello di “Viaggio in Italia” è un percorso che Canova intraprese ventenne e che sognava già da quando era il ragazzino orfano che frequentava l’accademia di nudo a Venezia e che, diciassettenne, scolpiva un’Euridice a grandezza naturale che gli valse la successiva commissione del momento eterno in cui Orfeo voltandosi perde ancora e per sempre la sua sposa.
È il 9 ottobre 1779 e Canova parte nottetempo da Venezia alla volta di Firenze.
Il diario descrive una teoria di capolavori che diventano archivio di dati e di sapere dai quali Antonio attingerà per dare vita ai suoi. Dal Duomo di Ferrara, alla cattedrale di San Petronio a Bologna, dove rimane colpito dalla bella testa di Santa Maddalena. Ed è sempre a Bologna che Antonio annota la visita allo studio dello scultore Giambattista Manfredi, dove rimane colpito dai suoi modelli anatomici così accurati fin nel dettaglio. E chiese, chiostri, dipinti, scuole, altari, pale: il san Girolamo del Carracci, le meraviglie del Guercino, ma anche il lavoro del Parmigianino, i soffitti, gli affreschi, i palazzi.
Deliziosa la pagina che descrive l’Istituto delle scienze (Palazzo Poggi) di Bologna: “passammo dunque all’Istituto, dove si vide in primo due famosi soffitti del Tibaldi, poi diversi altri quadri; i disegni d’architettura dei concorsi, modelli, cose naturali. Minerali. Serpenti. Mummie. Bellissimi studi d’anatomia e scheletri. Tutte le presentazioni del parto. Due gemelli attaccati nel petto e nella testa l’uno con l’altro, imbalsamati. Due figure di cera grandi al naturale di Ercole Lelli. Una camera piena di disegni di quasi tutti i maestri della pittura, di fisica sperimentale e ottica. Un’altra camera piena di busti, misure, idoletti, lumi, voti, vasi, patere e altre cose tutte antiche. La stanza dove si spoglia il nudo, la galleria dei gessi. La stanza della chimica dove abbiamo comprato una bottiglia di acqua antiscorbutica…”, uno Scarabattolo di Reims all’ennesima potenza detto con parole che mostrano occhi pieni di meraviglia e avidi di stimoli, dettagli, scoperte.
E Firenze, che gli si para davanti traboccante di tutto il suo, un paio di settimane dopo la partenza. E poi Roma dove, dopo esser stati al Monte di Pietà dove impegnare un anello per avere di che pagare un vetturino: “…ad un tratto vidi la piazza di San Pietro, sicché restai mezzo sorpreso notando quelle grandissime logge e fontane e l’obelisco. Entrai nell’atrio della chiesa di San Pietro, poi scendemmo varie scale dove in un grandissimo corridoio vedemmo gran numero di colonne di granito e altre pietre, che molti tagliapietra le riducevano più svelte. Passammo nel museo Clementino pieno di statue antiche, animali, vasi, candelabri ed altro, vedemmo anche il belvedere dove stanno l’Apollo, Laocoonte, Antinoo e Paride…”.
E viene da pensare che forse quel misterioso segreto che permise a Canova di rendere la superficie candida delle sue creature di marmo dotata di una luminosità prodigiosa, possa esser frutto non solo dell’osservazione di tanti capolavori umani, ma anche della capacità di osservare e leggere gli spettacoli naturali e dell’impressione che gli fecero, come accadde a Portici alla vista della lava e dell’orribile bocca del vulcano, che gli parve come dipinta.
“Viaggio in Italia” non ha solo l’enorme pregio d’esser narrazione di un percorso d’arte e bellezze e della scoperta stupita, ma anche del giudizio critico e onesto di Canova. È anche sceneggiatura involontaria e mirabile della quotidianità di un giovane scultore pieno di talento, curiosità, disciplina, impegnato nella continua attività d’”invenzione” e cioè dedito a quel disegno la cui “perfettissima forma”, come lui stesso diceva, è l’elemento principale della scultura, più ancora che del dipingere.
Questo testo però è prezioso anche per la sua capacità di restituire la frugalità e i dettagli pratici del viaggio, le difficoltà – talvolta – degli spostamenti, il costo delle notti in una locanda fiorentina, l’estrazione di un dente guasto affidata a un padre cappuccino esperto in quelle cose o la descrizione delle pietanze di un buon pranzo romano, consumato dopo aver assistito alla decapitazione di un giovane assassino, come fosse un teatro, perché allora anche questo era.
È davvero una guida a quel grand tour che verrebbe voglia finalmente di intraprendere, alla ricerca di quella meraviglia che è stata causa di memoria e motore del talento di un ingegno incomparabile e unico, che nei primi giorni del 1780, levatosi il fastidio di quel dente guasto, visitò la Galleria Corsini, dove l’attendevano Rubens, Rembrandt, Tiziano e quella piccola tremula lepre che ancora oggi a guardarla sembra fremere viva sulla carta dove la disegnò Dürer.
Canova si può andare a vedere nei musei, lo si può studiare su molti manuali d’arte, di lui si possono sfogliare cataloghi, approfondimenti. Si può scandagliare e scansionare il suo lavoro con le tecniche dell’intelligenza artificiale, alla ricerca di quel segreto che continua però a sfuggire, a non farsi catturare da nessun algoritmo e che, celandosi, rende inimitabile e irriproducibile la sua opera.
Oppure si può decidere di partire in viaggio con lui e cercare di lasciarsi guidare dal suo sguardo e da quel che mostra in queste bellissime pagine.
Dev’esserci una strana sorte nelle opere destinate a farsi eterne e in particolare per le creature di Canova, il quale d’altronde osservava con saggezza che il grande artista debba pensare a vivere più nel tempo futuro che nel presente. Il futuro è arrivato, continuerà ad arrivare e Canova è sempre presente in questo tempo che ha la forma di un’infinità perfetta, quella del suo marmo zuccherino, del lucore umido solo suo.
A dispetto della storia e dei suoi scherzi, dei suoi intervalli, dei balzi, delle pieghe che il tempo spesso ha e di quelle curve strane, sconosciute, il tempo torna e sembra aprirsi, alla fine e ancora, davanti alla porta di casa: Maddalena ha sentito le carezze di suo padre, ha mostrato la sua sacrale e appassionata estasi a tanti sguardi, si è persa, si è lasciata bagnare da anni di rugiade di brughiera. Eppure, non un graffio, niente l’ha scalfita.
Anzi, è più bella, ogni giorno di più. Più vera.