Il Moro della cima. Nessun luogo è al sicuro
Di Geraldine Meyer
Il Moro, fin da bambino, ha un solo pensiero, una sola certezza: l’unico luogo in cui può stare bene e sentirsi al sicuro è su in montagna. Tra alberi, rocce, silenzio e libertà. Non sente altro che quel richiamo, incurante e sordo alle voci familiari che lo vorrebbero a lavorare la terra. Così, poco più che bambino comincerà a dare una mano a un malgaro per portare il bestiame su, sugli alpeggi. E da li guardare la sua Grapa (con una p sola), emblema di tutto ciò che, a valle, non è possibile vedere o sentire. Quando, anni dopo, il Cai gli darà la gestione di un rifugio per il Moro comincia quella vita sempre sognata. La sua fama di conoscitore della montagna ne farà un punto di riferimento anche per l’amore autentico e l’autentico rispetto che il Moro ha per quelle sue cime. Quello che il Moro non sa è che, proprio quello che lui credeva un luogo sicuro e lontano dai compromessi della vita a valle, sta per diventare uno dei luoghi in cui la Prima Guerra Mondiale passerà lasciando segni profondi.
Da lì, da quelle altezze, il Moro assisterà alla storia che travolgerà la vita di milioni di persone. E più il mondo precipita nel baratro della follia belligerante più il Moro sentirà crescere dentro di sé la consapevolezza e il bisogno di guardare le cose dall’alto. Non certo per tirarsene fuori quanto, semmai, per mantenere un profondo senso dell’umano. Lui, come la sua Grapa, stanno lì, testimoni dell’orrore della guerra e delle ipocrisie umane, della criminale ingordigia e della morte dei soliti, i giovani e i poveracci.
Paolo Malaguti, con questo Il Moro della cima, costruisce un libro sobrio, lucido, delicato e forte al contempo. Un libro in cui il lettore viene condotto nella storia, dagli inizi della Prima Guerra Mondiale fino all’avvento del fascismo e la vigilia del secondo conflitto. E lo fa con pagine stupende in cui la storia del Moro si fa portavoce della storia grande e delle sue meschinerie, dei suoi testosteronici proclami e della violenza che il potere esercita sui vivi ma anche sui morti. Le pagine dedicate alla costruzione del sacrario, proprio sulla Grapa, sono forse alcune delle più belle e amare tra quelle che si possono leggere sulla retorica guerrafondaia e sulle misere speculazioni che i governanti non riescono a non compiere anche sulle ossa di chi è morto per le loro stupidità.
Un libro che racconta di come la guerra sia violenza su persone, cose e anche paesaggi. Uno stupro collettivo alla sacralità del tutto. La cui violenza è ben resa dalla Grapa, femminile perché fertile, che diviene il Grappa, maschile, cimitero di uomini e bugie. Un libro di amore per la montagna ma anche un libro di denuncia contro la guerra, un libro in cui vengono amaramente “previsti” e “presentiti” anche tutti i danni che l’uomo fa alla natura, quasi non vi fosse soluzione di continuità tra la macabra pazzia dei conflitti e l’altrettanto macabra speculazione, mascherata da rinascita, dei dopoguerra. Un libro amaro che ci restituisce la dignità di un uomo contrapposta al nulla della politica, della guerra e dei suoi cantori. Ed è bello pensare che il Moro sia davvero esistito. Si chiamava Agostino Faccin. E la sua vita appare, oggi più che mai, una preghiera laica contro le guerre e i loro cantori.
Letteratura
Einaudi
2022
266 p., rilegato