Nannetti che volò sul nido del cuculo
Di Geraldine Meyer
“può ben capire che questo suo continuare a scrivere sembrasse strano, come dire, più strano che agitarsi, urlare, biascicare senza sosta parole incomprensibili o ridere a raffica, comportamenti che uno si aspetta in posti come questo, ma scrivere sul muro del padiglione, incidendo lettera dopo lettera con la fibbia del gilet, ogni giorno per anni, questo non è normale nemmeno tra i matti”
“il Nannetti era considerato matto, matto vero intendo, con tutta la sua trafila, orfanotrofio, collegio, qualche istituto per minorati, se lo sono passati dall’uno all’altro come un pacco, prima di arrivare da noi era stato due anni all’Ospedale Forlanini a Roma, nel reparto di ortopedia, sembrerebbe per un problema alla spina dorsale, ma forse lo hanno tenuto tutto quel tempo perché nessuno sapeva dove metterlo, il Nannetti era una di quelle cose per cui non c’è posto al mondo”
“Il padiglione accoglieva anche bambini, talvolta ancora infanti, perché nati con qualche cromosoma fuori posto, perché troppo lenti o troppo veloci, o semplicemente in soprannumero per i posti disponibili a tavola”.
Solo pochi frammenti di questo bellissimo e dolorosissimo La polvere delle parole di Paolo Miorandi, recentemente pubblicato da Exorma, che continua un prezioso e importante percorso editoriale. In questo caso entriamo nella storia di Oreste Fernando Nannetti che, per quasi cinquant’anni, fu rinchiuso nel manicomio di Volterra e che, utilizzando solo una fibbia, incise su un muro del padiglione in cui si trovava qualcosa che, a tutti gli effetti, è un libro. Un libro su pietra, un libro fatto di lettere e segni, un libro per non sparire, per segnare ciò che gli si agitava nella mente.
Ne La polvere delle parole Paolo Miorandi ci restituisce la storia di quel libro e di questo che stiamo tenendo tra le mani. Una storia di storie in cui, a intrecciarsi, sono le vicende di Nannetti, di Aldo Trafeli, l’infermiere che lavorava nel manicomio di Volterra in quegli anni. E che fu l’unico a comprendere che dietro quei segni c’era qualcosa, che la voce di Nannetti andava ascoltata e accolta. E che ne divenne, in un certo senso, trascrittore e “traduttore”. Ma c’è anche la tragicità dell’istituzione manicomiale, di quella violenza fatta su chi non aveva un posto in cui stare, su chi rappresentava uno “scandalo” troppo incomprensibile, insopportabile e, per questo, da tenere nascosto.
Sono, queste, pagine che scavano e colpiscono come solo possono fare le parole di un narratore che non cela la durezza ma la filtra attraverso un amore e un’empatia che stordiscono. Tanto sono lucide, terribili e forse proprio per questo ancora più capaci di compassione. Ma anche denuncia. Che non lascia scampo.
Una vita disgraziata, quella del Nannetti, tra orfanotrofi, abbandoni e ricoveri. Una vita di solitudine, ferite e pareti che per decenni hanno rinchiuso quella che era una disperata fame di amore e ascolto. E che rinchiudevano un tempo da cui veniva levato il tempo stesso. In una perenne e continua osservazione dei ricoverati, guardati ogni minuto, privati di qualunque angolo e momento di intimità. Eppure, proprio perché costantemente sotto un occhio vigile, erano, a ben pensarci, trasparenti. La polvere delle parole è il racconto di una di queste trasparenze che, per divenire visibile e udibile, ha avuto bisogno di un muro e di qualcuno che un muro non lo avesse a protezione di cuore e orecchie.
Ma La polvere delle parole è anche un canto, disperato e drammatico, su ciò che resta e su ciò che sparisce. Proprio come i padiglioni del manicomio, scrostati e cadenti, come le vite di ciascuno di noi, se ci si pensa. Scrive Miorandi: “Ho davanti agli occhi la fragilità dell’opera umana di fronte al lavoro del tempo, al farsi avanti del silenzio. Il quasi niente che rimane ne è la sua accorata poesia.” Un libro che può costringerci a chiederci non tanto perché le persone impazziscano ma, semmai, perché non impazziscano. E ricordarci di quella sottile linea di separazione. Scrive, infatti, ancora Miorandi: “La perdita procura una sofferenza dai contorni riconoscibili. Non è il dolore bruciante di una ferita o di un’offesa, ma la sensazione diffusa del venire a mancare di qualcosa, talvolta di grande, altre volte di infinitamente piccolo, che contribuiva però a tenerti saldo sulle gambe.”
Scritti traversi
Narrativa, biografia
Exorma
2022
161 p., illustrato, brossura