Il romanzo del tempo interiore
Di Marianna Inserra
“Ma, quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo”
Primo volume della Recherche, Du côté de chez Swann, tradotto in Italia, a seconda delle edizioni, in Sulla strada di Swann (Einaudi) o Dalla parte di Swann (Mondadori), inaugura il vero romanzo moderno europeo, che segna più di tanti altri capolavori di riferimento del periodo, una rottura definitiva con la tradizione narrativa ottocentesca.
Non a caso, anche se soprattutto per pregiudizi nei confronti dello snobismo del suo autore, non ricevette il plauso del grande scrittore Andrè Gide, ingaggiato dall’editore Gallimard per scovare nuovi talenti e Proust fu costretto a rivolgersi al giovane (e coraggioso), nonché quasi sconosciuto editore Grasset e a pubblicarlo a sue spese. Era il 1913 e la risonanza dell’opera fu tale, che lo stesso Gide, ne dovette riconoscere la grandezza e fare pubblica ammenda nei confronti di Proust.
Alla ricerca del tempo perduto è un’opera impegnativa, si tratta di sette corposi volumi, è forse la saga romanzesca più lunga della storia della letteratura, non ci si avvicina ad essa senza un certo timore reverenziale e la consapevolezza che richiede mesi o anni per leggerla tutta.
Per apprezzare Proust, il lettore formatosi sul romanzo europeo dell’Ottocento, deve rassegnarsi a non trovare più il narratore che tiene sotto controllo trama e personaggi, perché è diventato inattendibile e la trama è quasi assente, così come è assente il narrare in terza persona. Queste sono le caratteristiche del Romanzo europeo del primo Novecento e le si possono trovare anche in altri autori, ma la vera rivoluzione, unica ed irripetibile consiste nello stile proustiano.
Il periodare di Proust è talmente nuovo – parola dei traduttori (Giovanni Raboni, Natalia Ginzburg) – la sua “voluta”, il suo periodo lungo anche più di venti righe, rappresenta una rottura con la stessa sintassi francese degli scrittori contemporanei.
L’opera di Proust è un universo a sé stante, coi suoi continui flashback, col suo personaggio-narratore interno che non è propriamente autobiografico, o lo è solo in parte e racconta più eventi, o meglio, più ambienti della Parigi di fin de siècle fino alla fine della prima guerra mondiale, muovendosi tra alta borghesia e alta aristocrazia terriera.
Dalla parte di Swann è diviso in tre parti: nella prima si raccontano i ricordi vissuti dal narratore da bambino in un luogo definito, Combray, le visite alla zia Léonie, i primi desideri, ingenui e indefiniti, d’amore infantili, l’attaccamento forte alla figura materna; nella seconda, per me la più bella, si narra della triste storia d’amore tra il signor Swann – di cui il narratore da bambino aveva sentito tanto parlare dai familiari – e la cocotte Odette de Crécy; nell’ultima parte, Nomi di paesi, il nome ci sono immaginifiche evocazioni che certi nomi di città italiane (e non solo) suscitano alla fantasia del protagonista. In quest’ultima parte si gettano le basi per il volume successivo, dove campeggerà lo struggente amore dell’io narrante per Gilberte Swann.
Proprio nelle pagine di Combray, compare il primo squarcio nel presente, una vera irruzione del passato alla coscienza dell’io narrante.
Un giorno d’inverno, sua madre lo aveva invitato a bere del tè con dei dolcini tipici, morbidi e bombati al centro, detti madeleines. Il protagonista invaso dal sapore e dal profumo di queste, sente risvegliare dentro di sè una forza sconosciuta, di cui sulle prime non riesce ad afferrarne le origini.
Ed ecco le più celebri pagine della letteratura mondiale:
“(…) nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde mi era potuta venire questa gioia potente?”
Dopo vani tentativi in cui cerca di isolare queste sensazioni di felicità indefinita, quasi divina, perché il protagonista sente di avvicinarsi a qualche forma di verità, viene travolto dal ricordo legato a quel profumo e a quel sapore. Tutti gli strati del passato più recente e del presente più remoto svaniscono e l’io narrante vive, vive in tutta la sua pienezza, il momento in cui la zia Lèonie, la domenica, quando lui era bambino, gli offriva del tè con gli stessi dolcetti.
Ecco l’origine di quel bagliore di felicità intermittente che spesso affiora agli strati più superficiali della nostra coscienza: un profumo, un colore, una melodia o meglio, una frase di una melodia (perché un altro squarcio sarà originato proprio dall’ascolto di una sonata al pianoforte) possono accendere la nostra “memoria involontaria” e farci toccare per pochissimi attimi il nostro passato. E il passato contiene in sé una qualche forma di verità, è realtà tangibile.
“Così è del nostro passato. È fatica inutile cercare di evocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde, fuori del suo dominio e della sua portata, in qualche oggetto materiale (nella sensazione che quell’oggetto materiale ci darebbe), che noi non supponiamo. Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo”.
Innumerevoli i passaggi sottolineati, letti, riletti ed ascoltati: Proust è una esperienza di lettura unica. Ho amato particolarmente la seconda parte, ho visto nel signor Swann una sorta di alter ego dello scrittore, il suo frequentare i salotti mondani, la vacuità e le ipocrisie dei nuovi arricchiti (la famiglia Verdurin e il suo club esclusivo di “fedeli” tra cui l’amata Odette) e l’atteggiamento sprezzante dell’aristocrazia di nobile lignaggio che lo stesso autore frequentava.
È la sezione dedicata parzialmente alla vita del dandy, che ricerca il piacere, il bello, è educato all’arte e alla musica, è dannunzianamente “intriso d’arte”. Tutta la Recherche , a differenza del naturalismo francese che l’aveva preceduta, è ben lontana da ogni impegno e denuncia sociale.
Il piacere che si prova a leggere Proust consiste nell’ accorgersi che qualcuno per noi mette su carta, con prosa unica e stile irriproducibile, i nostri pensieri più inconfessabili, rivela le nostre sensazioni più difficili da descrivere ed elaborare. Proust le ha scritte per noi.
Manca ogni tentativo di idealizzare protagonista e personaggi, l’opera si muove su uno scandaglio continuo, su una indagine instancabile dell’animo umano e dei rapporti sociali. È uno spaccato della vita borghese dell’epoca, una testimonianza illustre, un diario della coscienza, un colosso letterario.
Proust non dovrebbe essere uno scrittore di nicchia, una squisitezza per pochi adepti, ma un autore universale che, come dice Franco Fortini in una intervista, “insegna a vivere e a morire”.