Soffia forte vento, poi racconta di me
di Paolo Umberto Pasquon
Un giorno, il Tempo si fermò dal Barba, a Faro di Guardia, per farsi uno spritz. E gli piacque a tal punto, che decise di restare da quelle parti ancora un po‘.
A Faro, così lo chiamavano tutti quel paesino della campagna veneta, stretto tra canali di bonifica, il “Fiume sacro alla Patria” e il mare poco distante, ogni cosa scorreva lenta, senza sussulti, muovendosi quasi in punta di piedi. Chi arrivava da fuori, aveva l’impressione di essere capitato in un luogo disconnesso e bisognoso di un generoso upgrade, ma ai suoi abitanti, gente schiva e poco propensa alle novità, non andava di cambiare le cose. A Faro, i giorni fluivano tutti uguali nella loro ordinaria semplicità. Là, dove prima c’erano solo paludi e imperversavano la malaria e la miseria più nera, sorgevano ora belle case ordinate, ognuna col proprio giardino curato e recintato da siepi di sempre verdi, con le vie ben illuminate e avvolte in un silenzio che, solo di rado veniva rotto dall’abbaiare di qualche cane domestico o dal vociare breve di qualche bambino. Quando però, ai primi cenni d’autunno scendeva il vento da Nord, sferzante e curioso, a Faro accadevano fatti inaspettati che andavano a trasformare la sua natura sonnolenta; fatti che, talvolta, avevano il sapore di una crosta di polenta bruciacchiata .
Era un venerdì, quando arrivò quella volta, e neppure il Meteo l’aveva previsto.
Poco prima di uscire dal paese, tra due filari di pini marittimi e alte palme a ventaglio, si scorgeva la dimora dei Canton, cuore pulsante di feste e avvenimenti per amici e parenti, che si riunivano, a ogni occasione, nell’ampia sala da pranzo provenzale arricchita da un elegante caminetto in cotto sbiancato, orgoglio della padrona di casa. D’inverno, il fuoco ardeva continuo e copioso nella grande bocca di pietra e rendeva memorabili quelle feste. In un angolo della sala, tra una credenza piena di piatti e cristalli e il generoso tavolo ovale, si trovava il salotto dove i Canton passavano i loro pomeriggi di calma. Anche quel giorno erano lì, lei raggomitolata su una poltroncina verde pistacchio, assorta in pensieri e con lo sguardo lontano, lui affondato in una poltrona di pelle e immerso nella lettura di “Tuttosport”.
«Mi vedi come sto’?», fece lei a un certo punto .
Rodolfo, uscì dalle strade del Giro di Lombardia e guardò sua moglie Giovanna aggrottando la fronte spaziosa sopra gli occhiali da lettura appena appoggiati sul naso aquilino, socchiudendo piano due occhi d’acciaio dietro le palpebre rugose. Notò subito, da com’era messa, che qualcosa la agitava. Si sporse in avanti, quasi a voler mostrare interesse, ma lo fece solo perché tormentato da un irritante raggio di luce che filtrava dalla finestra di fronte.
Arrivò addirittura a spostare la poltrona, nel tentativo di allontanarsi da quell’assillo poi, soddisfatto del risultato, prese un bicchiere e si bevve un “Citrato effervescente”.
«Che c’è?», disse mulinando la bocca per il pizzicore frizzante della bevanda.
«Devo andare dalla parrucchiera, ecco che c’è!».
«E’ la terza volta questo mese», sentenziò Rodolfo eruttando dalla bocca semiaperta.
«Ho i capelli che mi stanno male e si vedono le radici bianche», continuò lei senza farci caso.
«E che ne so’ io!», disse lui occupato a ricacciare indietro i disturbi gassosi.
«Appunto, non sai niente perché non mi guardi mai».
«Domani sera vengono a cena Fabio e Veronica, te lo ricordi? Non vorrai mica che mi faccia vedere così dai suoceri di tua figlia? Ho anch’io la mia dignità!».
Rodolfo, come se non l’avesse sentita, si rimise a leggere. Girava le pagine a scatti improvvisi, quasi che il fastidio che provava riuscisse trovare sollievo in quello schioccare di carta, in quel rimestare con le sue lunghe dita carnose tra quei poveri fogli inermi, la cui unica colpa era di trovarsi tra le mani sbagliate nel momento sbagliato. Arso dal gran daffare, finì la bevanda d’un fiato e quasi si strozzò da quant’era esasperato.
«Perdio!, mai che si possa leggere in santa pace in questa casa. E i capelli e questo e quello. Adesso basta, vado a far conti», esplose fragoroso alla fine.
Giovanna lo guardò andarsene e si sentì più infelice che mai. Aprì l’album fotografico che teneva in mano. Scivolò con le dita sugli scatti e, fra i tanti, uno la colpì in modo particolare: era estate e c’erano lei e Rodolfo con i loro due figli, Luca e Vanessa, ancora piccoli, distesi a pancia in giù sulla sabbia con la testa sorretta sui gomiti. Le si inumidirono gli occhi per la felicità che vedeva nei loro volti e che, più osservava la foto, più si ingigantiva sino a permeare la stessa carta su cui era stampata. Affondò le unghie nel bracciolo della poltroncina e cercò di ricordare meglio. Ritornare a quei giorni fu come far scorrere all’indietro la pellicola della sua vita. Era domenica, la spiaggia s’era riempita presto e loro, dopo il bagno, s’erano messi a rincorrersi e a rotolarsi sulla sabbia ridendo come matti. In quel momento, era passato uno scattino da spiaggia – allora si faceva così – che aveva fatto quella foto ricordo. Chiuse l’album, lo ripose con cura poi, col cuore di piombo, ciabattò in cucina. Un orologio a pendolo iniziò a battere le ore e smascherò il vuoto che riempiva tutta la casa.
Rodolfo, nel frattempo, s’era chiuso nel suo studio e ripassava nervoso gli ultimi conti del B&B rumoreggiando con la bocca a ogni importo. “Sangue che scorre”, pensò vista la cifra totale. Alla morte dei suoi genitori, aveva ereditato un immobile in Marina, la località di villeggiatura poco distante e, dopo essere andato in pensione dal lavoro di statale, lo aveva trasformato in una struttura per turisti. “Ma che fatica e quanti pensieri gli dava, tra spese di manutenzione, bollette e tasse, gli restavano in tasca appena i soldi per campare”, così diceva di solito a chi si arrischiava a chiedere come andassero le cose. “Anzi era meglio che non lo facessero proprio”. Stufo di tutti quei fastidi, chiuse i libri contabili e si preparò per un giro in bicicletta, con la sua nuova “Bianchi Corsa” da quattromila e cinquecento euro. Voleva testarla sul percorso lungo l’argine del canale che scorreva appena dietro casa.
«Giovanna, guarda che vado», disse prima di uscire.
«Cosa ti preparo per cena?», chiese lei con la voce annodata.
«Ecco, appunto, un “risottin” con la zucca, ma poco che ho mal di stomaco, e tanta insalata che depura. Ah, mi raccomando, anche la cipolla nell’insalata, che drena, drena», rispose lui con un ghigno stampato sulle labbra. Appena fuori, inforcò i pedali e iniziò a spingere con gusto nonostante l’improvviso vento contrario che s’era sollevato.
Giovanna chiuse gli scuri che sbattevano, prese una zucca dalla dispensa, un coltello dal ceppo vicino al piano di cottura e iniziò a tagliare.
Squillò il cellulare.
«Ciao Mamma», sentì dall’altra parte. Era Vanessa.
«Ciao tesoro, tutto bene?».
«Mamma, senti, cosa farai per la cena di domani coi genitori di Renato? E non farmi fare brutta figura eh!».
«Beh», tentennò Giovanna per un attimo, «visto il periodo, pensavo a pasta col radicchio e per secondo pollo ripieno con patate al forno. Niente di che, poi siamo solo noi sei, tuo fratello ha impegni importanti domani sera e non verrà».
«See, see, immagino quali, del tipo bisbocce con gli amici fino all’alba. Per me solo pollo, comunque, che devo dimagrire, altrimenti non entro più nei vestiti».
«Ma no, ma no, che stai bene così».
«See, adesso vado ho un whatsapp in arrivo, cia ciao».
«Vanessa aspetta!», disse Giovanna, ma sua figlia aveva già chiuso.
Le scese una lacrima e riprese a lavorare la povera zucca: la affettava decisa, ne tagliava via la scorza dura, mise da parte i semi, e iniziò a ridurre la polpa in cubetti piccoli piccoli, e ancora più piccoli fino a trasformarli in un informe ammasso arancione. A ogni colpo di coltello, dalle sue labbra usciva la parola “risottin”, a un ritmo sempre più incalzante, sanguigno, isterico. Giovanna fissò ciò che le stava davanti e, con orrore, si rispecchiò in quell’insieme amorfo, in quel coacervo di cellule tritate. Sentì come se il sangue defluisse da ogni poro della sua pelle, da ogni cavità del suo corpo, lasciandola esangue e annientata fin nel più piccolo frammento del suo io. Poi, come per una assurda coincidenza, posò lo sguardo sulla lama che stringeva nel palmo: Coltellerie Rudolf®, lesse su un lato. Le mancò l’aria e cominciò ad ansimare in preda a una frenesia incontrollabile. Sconvolta, lanciò un urlo disumano e liberò tutto il furore che le bruciava dentro.
Mise in una pentola la zucca, il riso e il brodo e la pose sul gas senza accendere. Scagliò il grembiule in un angolo e uscì dalla cucina. Si guardò allo specchio, vicino all’entrata di casa, con un luccichio esaltato negli occhi e la bocca stirata in un sorriso malato. Ravvivò i capelli, sistemò le labbra col rossetto, afferrò le chiavi della macchina e ancora in ciabatte uscì.
In lontananza, lungo la strada che affiancava il corso del canale, delimitato da argini erbosi e da fluide righe di canne palustri, tra bagliori dorati e sfumature di ruggine, una figura confusa spingeva con foga esagerata sui pedali di una bicicletta da corsa. Alle sue spalle, una scura ombra metallica ruggì minacciosa. Fu veloce, spietata. Senza esitazioni. Tutto si confuse in un vorticare impazzito di arti, acciaio contorto, canne spezzate ed erba strappata.
E in quegli istanti mortali, poco prima che tutto finisse, si udì urlare: «Perdioooo».
Ormai della lunga estate rimaneva solo uno sfumato ricordo, l’aria s’era fatta diversa e il vento da Nord soffiava e soffiava carico degli umori e degli echi inquieti di storie andate.
A Ovest, il sole raccolse i suoi raggi e ammiccò stanco alla terra, pennellando d’arancio l’ultima luce su Faro di Guardia, mentre, tra le pieghe del vento eccitato, una voce straziata di donna gridava: «Soffia forte vento, poi racconta di me».
Fine.
In copertina un’opera di Vittorio Felisati, che alla campagna veneta ha dedicato la sua opera.