Una giacca troppo leggera
Di Alessandra Cella
Quando andavo a ritirare la mia solita pizza al Ponte, il venerdì sera alla stessa ora, mi toccava aspettare almeno una trentina di minuti. Ormai lo sapevo e avevo imparato a prenotare in anticipo, ma comunque non mi dispiaceva bere una birra al bancone desolato, nell’attesa, e guardare Letizia, la bambina della signora Chen, scorrazzare avanti e indietro con la sua macchina di plastica che stava ancora in piedi solo per miracolo. Ogni tanto piantava i suoi occhi neri dentro i miei, la piccola, e la mamma con le mani bianche impastate e la fronte imperlata di sudore mi sorrideva dalla sua postazione accanto al forno, sul piano rilucente pieno di contenitori in acciaio per gli ingredienti.
Enzo, che l’aveva chiesta in sposa con la lungimiranza di un giocatore di poker, era nato e cresciuto in borgata. Teneva su il muro con la schiena tutto il giorno fumando una sigaretta dopo l’altra, col suo sguardo torvo e i capelli sparigliati, abbozzando un saluto rauco al cliente di turno. Certo non era un granché come accoglienza, ma almeno da loro non ero obbligata alle chiacchiere di circostanza. La mia vita era incagliata in una zona grigia che trovava conforto solo nei ritagli di frivolezza che riuscivo a concedermi, mi occupavo distrattamente del resto e sempre col pensiero costante sulla depressione di mio padre a cui avevano da poco diagnosticato la malattia del motoneurone.
Davanti a me vedevo un’onda spaventosa arrivarmi addosso, lenta e inesorabile come la sorte avversa quando sta per travolgerti. Sorseggiavo la mia birra sotto la luce fredda del neon imbrattandomi di schiuma fino sulla punta del naso, e mi chiedevo se sarei più riuscita a fare una qualunque delle cose di tutti i giorni, compreso vivere quel momento, in mezzo al grumo di dolore che mi avrebbe pervasa.
La signora Chen posava il suo sguardo su di me con quel suo modo dolce e intermittente, mi ricordava la timidezza dei bambini quando un adulto disattento racconta a voce alta qualcosa che li riguarda e che loro volevano restasse segreta. Mi sembrava che lei sapesse, che avesse capito cosa mi si agitava dentro, ma ero sicura che per un antico e benedetto pudore non avrebbe mai osato invadermi con qualche domanda per la quale non c’era comunque abbastanza confidenza. Si era trasferita in valle che erano già cinque anni e da quando aveva preso in gestione il vecchio locale, insieme al marito, l’avevo vista sempre solo lavorare oppure assorta, di fronte al banco
del pesce, il lunedì mattina al mercato del paese. Ci scambiavamo un sorriso e io, chissà perché, mi chiedevo se fosse felice.
Letizia sgommava con la sua macchina giocattolo, mentre Enzo le urlava da fuori che era ora di piantarla con quel fracasso, che uscisse, e di corsa, a dare il becchime alle oche che scorrazzavano lì di fronte, in quella che doveva essere un’area gioco estiva per i bambini ma che aveva più che altro l’aspetto sconsolante di un cortile dismesso. Tirava un vento burrascoso, la piccola usciva trafelata infilandosi alla bell’e meglio un giubbetto di jeans troppo leggero per la serata, ignorando suo padre come se a chiamarla fosse un altoparlante che faceva richieste precise a orari fissi. Lei rispondeva con la sua solita allegria, faceva una discesa veloce a testa in giù sullo scivolo arrugginito al centro del quadrato terroso, le oche scappavano alzando la polvere e gli starnazzi si mischiavano alle sue risate.
La porta si aprì accompagnata dal trillo familiare del cicalino, provai fastidio per l’intrusione, più di tutto speravo fosse qualcuno che non conoscevo. Era Teresa, che abitava sopra la panetteria, la cinquantenne giovanile con i capelli rosso Milva e un pesante strato di trucco sulla faccia a cui avevano scritto puttana sul muro di casa pochi giorni prima. La faccenda mi era giunta all’orecchio, ma nessun particolare fino a quella sera in cui mi era toccato ascoltare il sermone di Mariadele, la macellaia allampanata che sputava sentenze sullo scandalo mangiando arachidi sul marmo screziato, mentre la signora Chen scaricava i tagli che le aveva ordinato. Le mie simpatie propendevano naturalmente per la rossa e ogni volta che Mariadele apriva bocca, la immaginavo ardere come un tizzone mentre attaccava un pezzo di manzo con la mannaia nel retrobottega, sognando di fare quello che andava raccontando in giro sdegnosa.
Teresa aveva preso casa in paese dopo essere scappata da una relazione tossica e qui aveva creduto di poter ricominciare, che non sarebbe importato a nessuno se quella voce maschile tradiva il suo aspetto e che in una piccola comunità avrebbe potuto dare il suo contributo.
Ma eccola, adesso, a dire alla signora Chen con un filo di voce che forse era ora di trovarsi un altro posto dove stare, che in valle per lei non c’era spazio. E io mi chiedevo perché invece uno spazio ci fosse sempre per quelli come Mariadele, che pontificavano sulla vita degli altri masticando noccioline a bocca aperta.
“Certo non deve essere facile neanche per lei”, sentivo dire dalla signora Chen a Teresa che aveva gli occhi umidi mentre si era accucciata ad accarezzare Tintu, il loro bastardino, che Enzo, siciliano da parte di padre, aveva chiamato così perché era difettoso.
La signora Chen non amava spargere zizzania, anzi adesso perorava la causa di Mariadele con Teresa, che riteneva così intelligente da comprendere che la macellaia di vita propria ne aveva ben poca, con quel figlio strano a cui badare e la bottega sempre così fredda che a furia di starci dentro tutto il giorno forse si era ghiacciata un po’ anche lei.
Il profumo della pizza che invadeva lo spazio mi riportò per un attimo alla sera dell’estate precedente, quando con mio padre cenammo fuori nel dehors per festeggiare la pubblicazione della mia prima raccolta di poesie per un piccolo editore, e ancora pensavamo che il suo zoppicare fosse dovuto a quella stupida storta che aveva preso camminando nel bosco, prima che altre ipotesi dai contorni più scuri prendessero forma. Ci si rideva su, sbeffeggiando l’avanzare del tempo tra un brindisi e l’altro e ora, invece, eravamo quasi al punto in cui il bastone non sarebbe più bastato e per mio padre, che fino a quel momento non era mai stato dipendente da nessuno e camminava per chilometri tutti i giorni, l’idea di una carrozzina equivaleva alla morte. Ci provavo a raccontare a un uomo della sua generazione, e col suo carattere, che cambiare il punto di vista era l’unica maniera di poter accogliere la malattia senza farsela nemica, impedendole di possedere la sua mente ancora prima del suo corpo; ma la verità era che appena finivo di dirgli queste cose, pensavo che se fosse toccato a me avrei solo voluto trovare il coraggio di farla finita. Eppure nei suoi occhi, quando mi ascoltava parlare, vedevo una luce che non volevo si spegnesse del tutto e soprattutto sentivo che lui era lì e mi ascoltava davvero, come in fondo non aveva mai fatto prima.
Il cicalino della porta mi risvegliò dai pensieri mentre Teresa se ne andava, il sacchetto di plastica al braccio con dentro gli spaghetti di riso che aveva ordinato e il tonfo cadenzato dei tacchi sugli autobloccanti. Si sentì il rombo della marmitta bucata della sua auto che quando girava in paese avvolgeva le strade in una nuvola nera; tutti si chiedevano se l’avrebbe mai fatta aggiustare, mentre io e la signora Chen eravamo forse le sole a sperare di no.
Fortuna che avevano appena finito di costruire un marciapiede sotto casa dei miei genitori.
Mi rallegravo con poco e per poco durava, tanto bastava a farmi dimenticare per un attimo che mia madre ancora non aveva sentito l’amministratore del condominio, l’uomo fantasma.
Mancavano i mancorrenti sulle scale, quella esterna e quella interna, che portavano al primo piano dove stavano i miei, ma nonostante i ripetuti solleciti la questione restava sospesa mentre la malattia si divorava i giorni. Immaginavo mio padre nel prossimo futuro murato in una casa senza ascensore da mattina a sera, con mia madre, in attesa che altri pezzi di lui smettessero di funzionare. In città, il dipartimento per le malattie neurodegenerative che lo aveva preso in carico si occupava del monitoraggio clinico; il supporto psicologico era più che altro un pro forma e non per mancanza di serietà, quanto per il fatto che mio padre era un paziente come tanti che, a detta dei medici, si stava assestando su una diagnosi inizialmente non compresa appieno e poi scesa dal letto con lui, nella luce violenta di un mattino di un paio di giorni dopo.
Fanculo la valle, salmodiavo come un muezzin in preghiera almeno cinque volte al giorno, qui siamo troppo distanti da tutto.
Benedetta la valle, mi ripetevo a occhi spalancati nelle mie notti insonni quando l’effetto dell’alprazolam svaniva, se il corpo di papà si ridurrà a un gomitolo almeno con la mente potrà volare sopra le montagne guardando fuori dalla finestra. Ma non ero solo io quella brava a fantasticare su questo genere di cose? Non lo so, ma da che ricordassi mi avevano detto così.
Che poi Oreste, il figlio strano di Mariadele, aveva sempre fatto effetto a papà. Lui certe cose le viveva con sospetto, come se non lo riguardassero, abituato com’era – al contrario di me – a una percezione personale di quasi invincibilità. “Perché vai a lavorare coi disabili? Troppa sofferenza”, mi aveva detto una volta. E quando avevamo incontrato il piccolo in farmacia con suo nonno Ernesto, tempo prima, mio padre aveva quell’ombra negli occhi dopo che se ne erano andati. Un misto di disagio, incredulità e insofferenza. Il corpo imbruttito, la testa con gli ingranaggi bloccati, ma che vita poteva mai essere quella, pensava.
Il nonno chiedeva del Micropam che non arrivava, col foglio stretto nella mano nodosa e piena di macchie, un uomo stanco al cui braccio si affacciava un reticolo di vene bluastre tenuto stretto dal nipote che ci si attaccava come un animaletto su una corda sfilacciata.
Un momento che sembrava un’eternità. Lo sguardo acquoso di Luisa, la farmacista col camice stropicciato e i capelli grigio tortora sempre legati in una lunga coda, che cercava informazioni passando dal computer al telefono; il respiro di Ernesto che si faceva più affannoso via via che le speranze di rimediare il farmaco gli si sgretolavano addosso anche oggi; Oreste che si era sganciato dal braccio del nonno e ora sorrideva a mio padre dondolandosi sulla sedia accanto
alla porta. Mio padre che ancora pensava che la distanza fra lui e quel bambino fosse siderale e io, che galleggiavo sul mio presentimento senza potergli ancora dare voce.
“Ecco la pizza, sono dieci euro in tutto con la birra.” Pagavo sempre uguale, ma la signora Chen me lo ripeteva ogni volta con le stesse L melliflue al posto delle R, rivolgendo lo sguardo allo scontrino prima di strapparlo, con la curva del collo inclinata e un ciuffo di capelli scappato fuori dall’elastico. “Grazie”, risposi dandole i soldi che avevo già in mano, ricacciando in gola un groppo di quelli che ormai mi coglievano spesso di sorpresa mentre facevo le cose di poca importanza: quando mettevo benzina, cucinavo qualcosa, infilavo le chiavi nella serratura della porta di casa. Non erano più le grandi cose ma piuttosto i piccoli gesti ordinari a incrinarmi dentro, e io uscivo rotta da questi brevi lampi, sentendomi sempre fuori luogo. E anche questa scena già vista mille volte, uguale nella forma ma diversa nelle minuzie, mi guidava come un fiume ai suoi affluenti. Da Letizia, che adesso stava condividendo un biscotto con Tintu e chiamava suo padre perché la guardasse almeno una volta; da Enzo, che la voce di sua figlia la sentiva ma non rispondeva e di lui catturavi solo la scia odorosa della sigaretta vicina; da Teresa, rannicchiata a lato del divano di velluto verde scuro, illuminata dalla televisione, che mangiava il suo cibo cinese da sola rispondendo a voce alta alle domande del Quizzone e tendendo l’orecchio al telefono nella speranza che arrivasse il messaggio di lei; da Mariadele e da suo padre, che si parlavano a malapena ma lui si occupava del nipote come fosse suo figlio, perché da quando il vigliacco – così Ernesto chiamava suo genero – li aveva abbandonati, Mariadele era sempre chiusa in macelleria, che qualcuno i soldi a casa per le cure e tutto il resto li doveva pure portare.
E mi conduceva infine alla solitudine di mio padre e di Oreste che, sebbene in modi diversi, stavano entrambi vivendo alla periferia dei loro stessi corpi, abitanti di una valle chiusa, una valle anfiteatro contenitore di storie di cui solo l’eco oltrepassava le montagne che la incorniciavano. Una valle che per me era un polmone, ma forse per loro un confine.
Quando l’odore acre del fumo ci raggiunse, non facemmo in tempo a prendere la porta che il marito della signora Chen si era già fiondato dentro al grido di “Brucia, brucia di nuovo!”.
La montagna in fiamme, ancora. La cosa andava avanti da anni, bastava una giornata di vento e tutti lì a chiedersi quanto tempo ci avrebbe messo stavolta ad appiccare il fuoco. Sì, perché tutti in paese sembravano essere certi di chi fosse la mano colpevole, il folle che si divertiva a giocare
coi fiammiferi, a tenerli in tasca come caramelle. Barba Gust, un uomo piccolo e bilioso con un fitto pizzo nero in faccia, due sopracciglia folte che coprivano gli occhi e un odore di alcool e stufa che gli impregnava i vestiti o quel che ne restava. Era stato interdetto, Gust. Faceva avanti e indietro trecentosessantacinque giorni all’anno con un’ape sgangherata come un cenciaiolo d’altri tempi. Aveva come base un vecchio rudere esploso di chincaglierie, ferri vecchi, teste di animali imbalsamati e Dio solo sa cos’altro, era un uomo solo.
Una volta Luisa aveva notato una massa scura, proprio sotto il noce davanti all’ingresso della scuola materna vicino a dove abitava. Si era fermata con la sua Duna lì accanto per vedere di cosa si trattasse e, quando le fu sopra, con gli occhiali a lenti spesse vide che era Gust, immobile e avvolto in un cappotto troppo pesante per una giornata in cui il termometro segnava ventisei gradi. Allora si mise le mani sulla bocca e cacciò un urlo pensando che quella fosse la volta buona per la fine degli incendi misteriosi, ma no, quella volta Gust aveva solo alzato troppo il gomito.
Io, la signora Chen, Enzo e Letizia eravamo fuori adesso, con il naso rivolto al cielo gonfio di cenere. Tintu abbaiava come un forsennato, Enzo gli urlava di smettere e, mentre il cane si allontanava a orecchie basse, la bambina diceva a sua madre che non poteva proprio essere Barba Gust a dare fuoco alle montagne, che era impossibile perché lui, una volta, aveva regalato un fiore a lei e lanciato un torsolo di mela dalla tasca a Tintu.
Teresa, guarda il caso, scopriva proprio in quelle ore dal giornale locale che un uomo, abitante di un piccolo centro di duemila anime, era stato trovato senza vita in casa sua. Il vicino di casa, che ogni tanto gli portava delle uova, era andato a bussargli alla porta vedendo che non usciva da qualche giorno e, non sentendo il solito concerto di miagolii, si era insospettito. Quando i soccorsi erano entrati, alcuni dei gatti randagi che abitavano con Gust lo circondavano, altri gli si erano accucciati sopra. Una colonia dagli occhi purulenti e il pelo infeltrito celebrava in silenzio la morte di un uomo che non era il piromane che tutti credevano.
Era quasi buio, ormai.
Un drappello di persone, uscite di corsa dalle proprie case, si era raccolto di fronte al torrente in secca che non vedeva acqua da cento giorni.
Tutti ai piedi della montagna, illuminata da lingue di fuoco che sarebbero diventate gigantesche macchie nere. Luisa, a braccia conserte, composta come la vedevi dietro il vetro
della farmacia, che non riusciva a togliersi di dosso la rabbia per il farmaco del piccolo Oreste che non arrivava; Mariadele immobile dentro la sua auto, col figlio seduto dietro che saltava e tentava di scavalcare, eccitato dallo spettacolo; Ernesto che gesticolava, cercando di convincere il suo amico operatore del soccorso incendi a farlo partecipare alle operazioni.
E Teresa, seduta su un masso in disparte, con gli occhi lucidi e una valigia aperta sul letto di casa ad attenderla. Teresa che condivideva con Gust una lettera scarlatta per la quale non avrebbe mai saputo a chi dire grazie.
Io scendevo a piedi, con il cartone caldo della mia pizza in mano, l’aria secca e bollente che mi bruciava le narici e le sirene nelle orecchie. Non so come ma riuscii a sentire il telefono che mi squillava nella tasca bucata della giacca di jeans. Una giacca troppo leggera per la serata. Feci uno starnuto secco e riuscii a rispondere prima che smettesse. Era mio padre che voleva sapere dove fossi e se stessi bene. Io gli risposi a voce alta che essere dentro un incendio senza averne paura era forse una cosa terribile, ma che poteva succedere solo perché vivevamo in questo posto sperduto. Mi sembrò di sentirlo sorridere.
Il vento si era finalmente calmato e io pensai che, in sua assenza, il fuoco si addomestica solo soffiando perché alla fine si estingua, almeno così fanno nei boschi di qui. Nelle ore a venire, avrebbero costruito le linee tagliafuoco, tirato via le foglie e spostato i rami perché l’unico modo per bloccare le fiamme è togliere dal loro cammino qualunque cosa possa bruciare.
Mi fermai per un attimo, prima di prendere la via di casa.
Pensai a tutte le anime di questo paese, almeno a quelle di cui conoscevo un poco la storia. Mi sarei svegliata anche io come loro, domani mattina, e mi sarei trovata a dover costruire nuovi passaggi che si biforcano, che si susseguono.
Oreste lo faceva da quando era nato, mio padre avrebbe imparato a farlo.
Tirai dritta verso casa dei miei. Vidi mio padre sul balcone, appoggiato alla ringhiera, nel suo pigiama blu, coi capelli bianchi ordinati e l’espressione distante che vestiva spesso, ormai.
Restai a guardarlo senza dire niente e, quando si accorse di me, alzai il cartone della pizza dicendogli: “Salgo da voi, me lo riempi un bicchiere di vino?”, lui mi fece cenno con la mano di salire e io pensai che della signora Chen, cosa assurda, non conoscevo il nome.
L’immagine di copertina è Soir Bleu di Edward Hopper. Foto presa da cultura.biografieonline.it