Memoria e desiderio
Di Marianna Inserra
Secondo volume della Recherche, riconferma dell’impareggiabilità di Proust, incoronata, stavolta, dal Premio Goncourt e anche dal plauso del pubblico.
Di fronte ai capolavori sublimi della letteratura mondiale, ogni commento entusiasta è pur sempre poca cosa.
All’ombra delle fanciulle in fiore , parafrasando il titolo, è il volume dei “bocci”: giovani donne nel fiore dell’età e della giovinezza, i primi e sofferti amore dell’io narrante, atmosfere vaporose dell’estate, aria di vacanza.
Chi ha letto il primo volume, sa molto bene che i titoli sono indicativi: il contenuto torrenziale, dalla prosa ricca di volute, a trama quasi zero, è un fluire di ricordi, di suggestioni, di sensazioni, di riflessioni.
La lettura della Recherche, che sia il primo o l’ultimo volume, porta con sé sempre un po’ di smarrimento: ogni romanzo che la compone nella sua complessità è privo di quella struttura cui il lettore ha bisogno per orientarsi, per usare le parole di Carlo Bo, per “legare la risposta alla domanda, la soluzione al problema”. E invece con Proust tutti questi canoni saltano, vengono ribaltati e stravolti: ci troviamo di fronte ad una trama moltiplicata all’infinito.
La Recherche du temps perdu non è una rappresentazione della realtà, ma è una ricerca del passato , di quel “paradiso perduto” da far rivivere ogni volta dentro di sé, è una ricerca della verità. Una verità che però rimane pur sempre parziale e Proust lo sa e sembra -mi verrebbe quasi da dire – che ami lasciare il lettore in questa situazione di sospensione. Proprio come faceva al di fuori della finzione letteraria, stando a quanto testimoniato dalla governante del nostro scrittore, Céleste Albaret, nel libro Monsieur Proust.
Proust ha inventato il tempo interiore, la memoria involontaria che non si possono minimamente associare al tempo storico. Come ricorda Mauriac, la letteratura francese ha avuto il suo cardine in Balzac -altro grande autore che ha letteralmente dato la vita per la sua opera – che però rappresenta il romanzo tradizionale, quello che crea la realtà, vecchia o nuova che sia.
Proust è il nuovo cardine della letteratura francese, ma lui non crea una nuova realtà, piuttosto cerca e riscopre il passato e lo fa con una modalità ben precisa, all’epoca troppo all’avanguardia per essere compresa. Questa modalità viene mostrata dall’autore nel primo volume, quando racconta come l’io narrante, ormai giovanotto, inzuppando un tenero biscotto nel tè, viene travolto dall’onda del ricordo: l’aroma di quel biscotto, chiamato madeleine, apre uno squarcio nel suo presente e lo catapulta nel passato, nella stanza dell’amata zia Léonie che, quando lui era bambino, lo invitava a sorseggiare con lei il tè di tiglio e ad inzupparci dentro quel biscotto.
Anche il secondo volume ha più centri e nuclei narrativi che si possono grossomodo ricondurre alle due parti che lo compongono: “Intorno a Madame Swann” dove l’io narrante si innamora della figlia di Swann, avuta da Odette, Gilberte, e dal capitolo delle vacanze a Balbec, dove impararerà ad amare Albertine.
Nella prima parte, quella che nel primo volume ci era sembrata una giovane cocotte scialba, ignorante è qui innalzata al ruolo di Madame Swann, donna matura, circondata da innegabile fascino e da immancabili corteggiatori. Lo scrittore ama mostrarci le sue toilettes, ci mette al corrente dei pettegolezzi scambiati con le sue ospiti nel grande salotto di casa Swann. Cura del dettaglio e studio delle impressioni: questa è una delle mille sfumature di colore che compongono la tavolozza del talento di Proust.
Occorre allentamento, anche la memoria va allenata
“ (…) la nostra memoria è infima, corta come quella di un uomo che, dormendo, pensa mille cose di cui subito si dimentica. (…)
Il je narrante non riesce ad apprezzare la Sonata di Vinteuil, non riesce a capire come mai Swann la ami così tanto e allora giunge a questa meravigliosa conclusione:
Non avendo potuto amare che in tempi successivi tutto quanto quella Sonata mi offriva, non la possedetti mai per intero: assomigliava alla vita. Ma, meno deludenti della vita, questi grandi capolavori non cominciano col darci quanto hanno di meglio. Nella Sonata di Vinteuil le bellezze che si scoprono per prime sono anche quelle di cui ci stanchiamo più presto, e senza dubbio per la stessa ragione, cioè perché differiscono meno da quel che già conoscevamo. Ma, quando queste bellezze si sono allontanate, ci resta da amare una certa frase che il suo ordine, troppo nuovo per offrire al nostro spirito altro che confusione, ci aveva reso indiscernibile e conservata intatta; allora essa, dinanzi a cui passavamo ogni giorno senza saperlo, e che si era tenuta in serbo, che per il solo potere della sua bellezza era divenuta invisibile e rimasta sconosciuta, viene a noi per ultima. Ma sarà anche l’ultima che lasceremo. E l’ameremo più a lungo delle altre, perché avremo messo più tempo ad amarla.
Il lettore non ha il tempo di sentire l’amaro in bocca per l’infelice matrimonio di Swann, che prova compassione per il povero Je narrante che si innamora, non ricambiato, di Gilberte. La prima parte, come anche nella seconda, include sempre un interessante spaccato sulla società che cambia, sull’aristocrazia che odora di stantio e che guarda con disprezzo e timore i parvenues, i nuovi ricchi così ben rappresentati nel primo volume dai Verdurin. Proust ce li fa conoscere senza raccontare in terza persona i personaggi più rappresentativi, ma attraverso il particolare dei loro vestiti, l’arguzia o l’imbecillità dei loro discorsi, la loro sensibilità verso l’arte, la natura, la bellezza, attraverso i loro discorsi. Sono personaggi che a volte sembrano avere vita propria anche al di fuori del romanzo stesso.
Ed è così. È innegabilmente così.
La seconda parte del romanzo è ancora più coinvolgente, più emozionante, probabilmente non ci saranno le stesse atmosfere nei volumi successivi: in Nomi di paese: il paese (da notare la variazione con il titolo dell’ultima parte del precedente volume) l’io narrante è con l’amata nonna a Balbec per respirare l’aria di mare benefica per la sua salute, afflitta dall’asma. Come nell’ultima parte del precedente volume, il richiamo all’Italia, al desiderio di vedere quei luoghi, coi suoi paesaggi coi suoi tesori d’arte fa da preludio al capitolo dedicato ai sogni, alla speranza di conoscere la bellezza, quindi al desiderio.
In questa parte l’amore e il legame con la nonna si mostra in tutta la sua necessità “Una volta le dissi: «Senza di te non potrei vivere. — Ma non bisogna, mi rispose con voce turbata. — Bisogna indurire il nostro cuore. Altrimenti, che ti succederebbe se io partissi per un viaggio? Spero invece che saresti molto ragionevole e molto felice. — Saprei essere ragionevole se tu partissi per qualche giorno, ma conterei le ore. — Ma se partissi per dei mesi… (a questa sola idea mi si stringeva il cuore) per degli anni… per…». Tacevamo tutti e due. Non osavamo guardarci. Eppure, soffrivo più della sua angoscia che della mia.
Il nostro io narrante, alter ego per nulla ben celato del nostro autore, è una persona abitudinaria, bisognosa sempre di una donna amorevole che lo vizi e lo coccoli: è stato così con la madre, con la nonna e, dopo, con la governante, con “la mia Céleste”.
È il capitolo dove campeggia la figura particolarissima di Madame de Villeparisis, di nuovi amici come l’amabilissimo Saint Loup, giovane aristocratico che il protagonista ammira per i suoi modi gentili, la sua eleganza, la sua educazione, le sue idee rivoluzionarie (amava Nietzsche e Proudhon!), Bloch, e, non ultimo Charlus, che turberà il nostro io narrante, per le avances che gli farà. Ultimo incontro, il più importante, è quello con Albertine Simonet e il suo corteo di amiche che si presentano come vergini mitiche stagliate sull’azzurro del mare. È questa la parte più evocativa, più ricca di poesia che chiude l’opera con un barlume di speranza misto al gusto dolce e amaro della nostalgia per quel tempo e quel luogo che la fine dell’estate e della villeggiatura ha costretto a lasciare.
E’ il romanzo della giovinezza, della ridicola età, un’età per nulla ingrata, anzi feconda caratterizzata dallo stupore, dalla meraviglia, dagli errori di valutazione delle persone e quindi delle prime grandi delusioni. E’ il romanzo del sogno e del desiderio
La pressione della mano di Albertine aveva una dolcezza sensuale in armonia, si sarebbe detto, col colorito roseo, leggermente mauve della sua pelle. Era una pressione che sembrava farvi penetrare nella fanciulla, nella profondità dei suoi sensi, come la sonorità della sua risata (…)
Da notare il colore mauve, (in corsivo nel testo originale nella traduzione del Raboni ) che lo stesso Proust aveva utilizzato nel volume precedente, Dalla parte di Swann, per evocare la bellezza e la dolcezza della città di Parma
Poiché il nome di Parma, una delle città che maggiormente desideravo visitare da quando avevo letto La Chartreuse, mi appariva, compatto, liscio, mauve e dolce, se qualcuno mi parlava di una qualsiasi casa di Parma nella quale sarei stato introdotto, destava in me il piacere di pensare che avrei abitato in una dimora liscia, compatta, mauve e dolce, svincolata da ogni rapporto con le case di altre città italiane (…)
La grandezza di Proust è difficile da delineare, quel che è certo è tuttora, come dice Carlo Bo nella Prefazione, nell’edizione “I Meridiani”, “non ha ancora esaurito da la sua carica di luce” .
Libri:
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol.I, traduzione Giovanni Raboni, “I Meridiani”Mondadori, Milano 1983
Céleste Albaret, Monsieur Proust, casa editrice SE, Milano 2004